astolfo
Berberi (terza
parte) - Nei secoli i berberi sono
stati protagonisti di varie ribellioni - rientrate solo dopo l’avvento dei
Turchi ottomani, che hanno praticato una sorta di autonomia differenziata in
Nord Africa, dall’Egitto al Marocco. Le popolazioni berbere aderirono anche al
kharigismo, una setta minoritaria ora estinta, che sunniti e sciiti
temevano e combatterono, e si caratterizzava, oltre che per il radicalismo
etico connesso a tutti i movimenti radicali, “millenaristici”, anche per una
particolare considerazione della donna nella società.
Tra gli “editti” kharigiti ce n’era uno oggi di attualità, la possibilità di
una guida politica e militare femminile. E più di un caso è registrato, anche
se su fonti incerte. Nell’odierna Zuara, in Libia al confine con la Tunisia, oggi
punto d’imbarco principale dei migranti a destinazione Lampedusa, la Conquista
araba subì un arresto, al primo tentativo, contro una resistenza locale
capeggiata da una donna, Dihya o Al Kahina, appena assunta al trono dell’Aurès,
come regina.
Tra gli “editti” kharigiti ce n’era uno oggi di attualità, la possibilità di
una guida politica e militare femminile. E più di un caso è registrato, anche
se su fonti incerte. Nell’odierna Zuara, in Libia al confine con la Tunisia, oggi
punto d’imbarco principale dei migranti a destinazione Lampedusa, la Conquista
araba subì un arresto, al primo tentativo, contro una resistenza locale
capeggiata da una donna, Dihya o Al Kahina, appena assunta al trono dell’Aurès,
come regina.
Il regno di Dihya-Kahina è oggi tanto celebrato quanto è poco provato, da
documenti o testimonianze. Viene datato approssimativamente 668-703. Una
vittoria celebre, e sicura, la regina berbera ebbe alla battaglia di Meskiana,
698, contro il generale Hassan al Numan al Ghassani, passato alla storia come
il conquistatore del Maghreb.
Il suo ruolo, come regina dell’Aurès, sarebbe stato decisivo anche nel
primo arresto che la Conquista subì, nel 683, nella quale era perito il primo
comandante della Conquista dell’Ifriqyia,
Uqba bin Nafi, un “Compagno” del Profeta Maometto – già illustratosi
quale creatore della città santa (oggi tunisina) di Kairouan. Uqba, che aveva
conquistato le odierne Tripolitania e Tunisia salendo dal Fezzan, e aveva
gestito la Conquista con durezza, sarebbe stato sconfitto in realtà da Kusayla,
padre o nonno di Dihya-Khina, re dell’Aurès. In una località chiamata Tahuda,
nei pressi dell’odierna Biskra, quindi nella regione del regno berbero.
Kusayla, altrimenti noto coma Kusiela, Aksel, e anche Cecilio – combatteva gli
arabi insieme con i bizantini – era stato sconfitto, catturatio, e umiliato
pubblicamente da Uqba. Ma era riuscito a fuggire e aveva riorganizzato le sue
tribù, prendendo poi di sorpresa Uqba, che aveva schierato altrove il grosso delle
sue truppe..
Dihya-Kahina è celebrata oggi come la regina incontestata del Maghreb dopo la
vittoria, questa sicuramente da lei gestita, contro al Ghassani, il comandante
arabo successore di Uqba bin Nafi. Ma il suo dominio durò poco, stando alle date
sicure: fino alla sconfitta di Tabarka, 703, tra l’odierna Tunisia e l’Algeria,
contro lo stesso generale arabo, nella quale perì – forse suicida. È ricordata
con monumenti nell’Algeria di Nord-Est. E con un toponimo che ne segnerebbe il
luogo della morte, Bir Al Kahina, il pozzo di Kahina. Il nome Kahina è oggi
diffuso tra le donne berbere in Algeria e Marocco, e nell’emigrazione algerina
e marocchina.
Kahina è il soprannome arabo della regina Dihya, e sta per sacerdotessa, ma
con poteri magici – più strega che divina. Le poche notizie su di lei sono di
cronisti arabi: Ibn Khaldun, che ha anche una “Storia dei berberi”, e Ibn al
Athir, “Al Bayan al Mughrib”, l’osservatore del Maghreb.
Nell’Ottocento nacque tra gli ebrei d’Algeria la storia che “Kahina” fosse
di religione ebraica, di una tribù convertita all’ebraismo. Un paio di romanzi
l’hanno poi celebrata come eroina ebrea. Gli storici non sono concordi nel
repertoriare una larga presenza ebraica nel Maghreb. Una sola fonte in tal
senso è disponibile, anche se autorevole, Ibn Khaldun, che nella “Storia dei
Berberi”, nella traduzione dell’orientalista irlandese noto come barone de
Slane (William McGuckin, diplomato in arabo a Parigi, interprete ufficiale
dell’esercito francese in Algeria), scrive: “Tra i berberi ebrei si
distinguevano i Gerawa, tribù che abita l’Aurès, e alla quale apparteneva la
Kahina”.
Gli odierni abitanti di Zuara sono ancora berberi, con un dialetto berbero,
che li accomuna alla costa libico-tunisina fino all’isola di Gerba.
Una leggenda siciliana ora in disuso, ma un tempo popolare (tema stabile
dell’opera dei pupi, insieme con la storia - variamente declinata - di
Colapesce), basata su un documento del 13mo secolo, racconta di una Virago
mussulmana che per anni fece guerra a Federico II, da ultimo organizzando la
resistenza nella roccaforte di Entella, la Virago di Entella - Entella fu
storicamente un centro di cultura islamica, e anche di resistenza al dominio
normanno e poi svevo, al punto che Federico II la volle distrutta. Le radici
berbere sarebbero peraltro le prime nel Maghreb (era berbero sant’Agostino), e
la prima femminista si può dire Didone.
Resta da accertare quanto di berbero, e non di arabo, è dei Saraceni, che
per un millennio hanno infestato il Mediterraneo occidentale, e le coste
italiane. Lasciando trace notevoli negli etnonimi. Per esempio Sciascia, che è
lo skiscià berbero, il berretto. O i
Saraceno. O i tanti Morabito di Calabria (è il cognome più diffuso, dopo il
bizantino Romeo) e Sicilia - i murabit¸ come
in arabo erano chiamati i berberi almoravidi che occuparono la Spagna.
(fine)
Federigo
Verdinois – Il letterato napoletano, che fu attivo nei primi decenni del
Novecento, autore di almeno 350 traduzioni, è quello che ha impostato la
ricezione un po’ falsata dei grandi russi fino a dopo la seconda guerra. Di cui
è da presumere avesse una buona conoscenza, poiché insegnò Letteratura russa
all’Orientale a Napoli e fu segretario del consolato russo in città. Traduzioni
tutte autorizzate, più spesso per l’editore Carabba di Lanciano, allora il
maggior editore di narrativa, ma non dl tutto fedeli.
Verdinois (Caserta 1844-Napoli 1927) si
ricorda anche come primo traduttore di Knut Hamsun, benché tardo, tra il 1919 e
il 1921, a cavaliere dell’attribuzione del premio Nobel 1920 allo scrittore
norvegese. Questi definitivamente dal russo –contrariamente all’uso, che vedeva
gli scandinavi tradotti in Italia via tedesco. Tradusse prima “Pan” (1990), poi
“Fame “ (1894) – per lo stampatore-editore napoletano Giannini. Hamsun era molto
popolare in Russia, dove era celebrato come scrittore del tipo e alla pari di
Dostoevskij - con ben due edizioni delle sue opere complete nel solo 1910.
Negli stessi anni, 1917-1921, Verdinois cominciava a tradurre anche Dostoevskij,
dapprima “Povera gente”, poi “Delitto e castigo”.
Fu traduttore
rinomato di Dickens, Victor Hugo, Tagore, Shakespeare, Wilde, Hamsun per l’appunto.
Di Sienkievicz, allora molo letto. Soprattutto dei grandi russi: Puškin, Gogol’,
Turguenev, Černyševskij, Tolstoj, Gorkij, Dostoevskij. Ma in prose che
riproducono - trova la filologa Sara Culeddu, specialista di letterature scandinave,
in “Knut Hamsun in Italia negli anni 1920” – stilemi di “alcune tra le migliori novelle di
ambientazione napoletana” del Verdinois stesso. Culeddu si sofferma sulle
traduzioni di Hamsun, che confronta con le traduzioni russe coeve, alle quali fa
lui stesso riferimento nella corrispondenza, e le trova “costellate di
fraintendimenti (lessicali e grammaticali), di anomale traslitterazione di nomi
di luoghi e persone, di omissioni di porzioni di testo (poche righe o pagine
intere), o persino di aggiunte, sia si singole parole che di lunghi periodi”.
Wikipedia
lo ricorda anche come teorico del teatro. “influenzato in questo dal lungo
soggiorno fiorentino”, negli anni di Firenze capitale, tra il 18654 e il
1869: “Verdinois ne propose una rifondazione attraverso il ricorso al
vernacolo, che poteva configurarsi come ottimale veicolo di irradiazione dell’educazione,
sia civile che morale”. Era stato a Firenze per cinque anni commesso di dogana.
Fu autore di apprezzati “Racconti inverisimili”, appassionato si
spiritismo, specialmente di mesmerismo.
Kostantin Zarjan – O Zarian
nella traslitterazione italiana più ricorrente, è il poeta e il rivendicatore dell’identità
armena, che avviò dall’Italia, da Venezia, nel 1914, e uno dei testimoni più attendibili
della persecuzione degli armeni da parte dei turchi, al momento della dissoluzione
dell’impero ottomano – che documentò nel 2019 in una serie di corrispondenze
dal vivo, per “Il Messaggero” e “Il Secolo XIX”. Aveva scritto in precedenza,
nel 1915, al papa Benedetto XV, sempre per denunciare il genocidio degli armeni.
Figlio di un generale dell’armata imperiale
russa, aveva studiato in Europa, a Parigi-Asnières, dopo il liceo russo di
Bakù, e alla Université Libre di Bruxelles.Nel 2010 decide di dedicarsi all’armeno,
partendo dall’apprendimento della lingua, e si stabilisce a Venezia, ospite per
tre anni della Congregazione Mechitarista. Vivrà poi a lungo a Firenze, in contatto con Papini, Soffici, Cardarelli, Marinetti.
“Zarjan ha lottato tutta la vita per l’indipendenza
della sua patria e ne ha denunciato le sofferenze nei ‘Tre canti per dire i dolori
della terra e i dolori dei cieli’, che per il loro profondo spirito poetico e
patriottico attirano l’attenzione di Respighi” – Antonella D’Amelia, “La Russia
oltreconfine”, p. 216. Sono i poemi brevi “La mamma è come il pane caldo”, “No, non è
morto il figlio tuo”, e “Primavera”. Quest’ultimo, per soli, coro e orchestra, va
in scena alla Scala nel marzo 1923, in un concerto di “musiche italiane” diretto
da Bernardino Molinari.
Per tutta la vita Zarjan sarà impegnato nella
causa armena, in Italia e ovunque in Europa, specialmente in Spagna. E sempre
in qualche modo legato all’Italia. Che è il suo paese di elezione, a Corfù e Venezia negli anni 1928-1934 – e dove i suoi figli,
Armen, architetto, e Nvart, scultrice, sceglieranno di vivere e operare. In un intreccio
di censure e opportunità col governo sovietico, e di andirivieni con la patria.
Nel secondo dopoguerra insegnerà anche negli Stati Uniti, alla Columbia. Ma
passerà gli ultimi anni a Erevan, richiesto dal katholikòs Vazgen I di curare il Museo della letteratura e dell’arte
di Erevan.
astolfo@antiit.eu
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