giovedì 1 febbraio 2024

Più ridicolo di Mussolini è il racconto di Mussolini

Si conclude a mezz’aria la superproduzione Rai sulla “lunga notte del fascismo”, il 25 luglio1943. Tra scene vere e una drammaturgia sfocata, dispersiva. Tra le prima il tripudio di Roma alla notizia della “caduta del fascismo”, roba da non credere ma vera secondo ogni testimonianza. Il bieco capo dell’Ovra, la polizia politica, Armando Giglio, un assassino, già famigerato a Bologna, che sibila a Dino Grandi dopo la caduta di Mussolini: “Noi siamo lo Stato!”, e ha ragione: rimane in carica con Badoglio, e dopo la guerra non sarà condannato, ma pensionato. La “perdita” dei Savoia – e dell’Italia - sotto l’influenza nefasta di Acquarone, il ministro della Real Casa.
Una narrazione monotona, malgrado la drammaticità degli eventi. E la spiegazione è forse che non si riesce a raccontare Mussolini, il fascismo, se non in chiave ironica, macchiettistica. Mussolini furbo e scimunito. I suoi federali pure – fra tutti si eccettua solo Grandi, su cui la serie è modellata. I Savoia pure, sono sempre una macchietta. Vittorio Emanuele III è messo a sedere su una ridicola poltrona rossa laccata in mezzo a una stanza vuota - la stanza del trono? E tiene una pistola a tamburo nel cassettino, la carica, e se la mette in tasca quando riceve in udienza Mussolini defenestrato – per il quale ha già provveduto un cellulare con i Carabinieri sulla porta carraia, in forma di ambulanza.
Peccato. È sulla “lunga notte” che l’Italia ha evitato, malgrado le magagne successive del re e di Badoglio, il destino della Germania: la distruzione delle città e le campagne, e la fame per molti anni dopo la guerra – riammessa nel novero delle nazioni ben prima di De Gasperi a Parigi.
Del fascismo pure, oltre che di storia propriamente detta, documentata, ci sono narrazioni più leggibili, sceneggiate, di Monelli, Montanelli, Bertoldi. Per esempio su Ciano, su Edda, sul “duca” imprenditore Acquarone, l’anima nera di Vittorio Emanuele III. Ma non c’è scampo, le macchiette fanno premio. Più ridicolo di Mussolini – ma non lo era – è il racconto di Mussolini.
Giacomo Campiotti, La lunga notte

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