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martedì 5 marzo 2024

Letture - 545

letterautore


Autofiction
– Ha precedenti illustri, seppure mascherati. Le “Confessioni”, da sant’Agostino a Rousseau. I “viaggi” di Sterne. Le memorie romanzate di Günter Grass (proprio “Il tamburo di latta”, molto prima che “Sbucciando al cipolla”). Ma il caso esemplare, celebrato fino a qualche decennio fa e poi dimenticato, proprio in epoca di “selfie”, è Amiel, Henri-Frédéric. Il poeta-filosofo ginevrino dell’Ottocento, che racconta le sue giornate in 17 mila pagine, ora per ora – forse perché in Svizzera succede poco, benché Ginevra sia prossima alla Francia.
 
Cinema
– Oggi è un tempio di silenzio e riserbo, più raccolto di una sala di concerti malgrado il popcorn – fino agli elenchi dei titoli di coda, di centinaia di funzionari, tecnici, operatori, operai e comparse, di cui non s’è visto, e non c’è da vedere, nulla, e niente da pensare: si guarda un film come si legge un libro, da soli, seppure in sala con molti posti – si vede in sala solo per la comodità, di poltrona ampia e schermo grande. 
Un tempo, con il film a rotazione senza l’obbligo di uscire di sale, e la possibilità di entrare in sala in qualsiasi momento, la fruizione era compartecipata, in qualche modo, sia pure per l’incomodo o il disturbo che si dava agli altri spettatori entrando durante la proiezione. Non vigeva il detto: non interrompere un’emozione. Ossia, la sala-mercato era una parte dell’emozione, una forma di compartecipazione. Per un senso di comunità, e di festa – lo spettacolo, in teatro, in piazza, all’aperto, al chiuso, si vuole d’insieme.

 
Dante
– La “Commedia” come “poema dell’indugio”, la dice Eco nelle Norton Lectures (“Sei passeggiate nei boschi narrativi”). Cioè della suspense. Seppure in incongruo collegamento: “Un esempio di indugio enorme, dilatato per centinaia di pagine, che serve a preparare un momento di soddisfazione e gioia senza limiti, rispetto al quale la soddisfazione dello spettatore di un film porno è poca e miserabile cosa”.
È un racconto, da leggere come un romanzo. Giusto il consiglio di Dorothy Sayers, traduttrice del poema, nel 1949 ai suoi lettori (la giallista fu dantista emerita).
 
Identità – Roma la rafforzava aprendosi e non chiudendosi, con la mescolanza delle culture. Con l’accoglienza – con la “vendita” della propria immagine, se si vuole. Nella sintesi di Zbigniew Brzezisnkij, “La grande scacchiera”,  agli inizi, una volta fatta la tara della forza militare di Roma: “Il potere imperiale di Roma, tuttavia, era derivato anche da un’importate realtà psicologica. Civis romanus sum – sono un cittadino romano  - era l’autodefinizione più importante, una fonte d orgoglio, l’aspirazione dei molti. Poi concessa anche a persone non romane di nascita, lo status magnificato di cittadino romano era l’espressione di una superiorità culturale che legittimava il senso di missione del potere imperiale”.
 
Montague – La casata inglese di lunga nobiltà deriva il nome dall’italiano Montecchi – Romeo Montecchi sarebbe nella lingua di Shakespeare Romeo Montagu.
 
Sgangheratezza – È il segreto di “Casablanca”, “Rocky Horror Picture Show”, e secondo Eliot anche dell’“Amleto”, dice Eco nelle “Sei passeggiate nei boschi narrativi”, pp. 157 segg. Cercando di rispondere alla domanda: “Perché un film diviene un cult movie, perché un romanzo o un poema diviene un cult book? E poteva aggiungere i filmacci “Febbre di cavallo” (Proietti, Montesano) o l’improponibile (ora) “I due carabinieri” (Verdone e Montesano). Ma allora, aggiunge, è il segreto della popolarità anche della Bibbia. E si dà questa ragione: i due film e l’“Amleto” sono cresciuti giorno per giorno,”senza sapere come la storia sarebbe andata a finire” (“Ingrid Bergman vi appare  così affascinantemente misteriosa perché, recitando sul set, non sapeva ancora quale sarebbe stato l’uomo che avrebbe scelto, e quindi sorrideva a entrambi con eguale tenerezza e ambiguità”). Mentre “«Amleto» sarebbe una fusione non completamente riuscita fra tre diverse fonti precedenti, dove il motivo dominante era quello della vendetta”.
 
Stati Uniti-Russia – Gli Stati Uniti sono il “Belpaese” in cinese. La Russia “la terra affamata”.
“Il nome completo è la traduzione di Stati Uniti d’America”, Mei Li Jiang Zhong Huo. Mei Li Jiang è America. He Zhon Guo è Stati Uniti. Tuttavia, il termine comune usato per riferirsi agli Stati Uniti è la forma abbreviata Mei Guo. Mei in questo caso nel senso di “bello” e “guo” di “paese” – Mahjar Balducci, Agenzia Radicale.
La Russia è il corrispondente dell’inglese “the hungry land”.
 
Susanna – “Susanna e i vechioni”, soggetto biblico, “ignuda e belloccia mentre nel giardino di casa fa le abluzioni”, ricorda Mephisto sul “Sole 24 Ore Domenica”, è stata ”soggetto pruriginoso” dei “maggiori artisti: “Rembrandt (1636), Artemisia Gentileschi (1610) – che se ne intendeva assai –Rubens (1655), Tintoretto (1555), Paolo Veronese (1580), Palma il Giovane (1600),Tiziano (1560), il Guercino del Prado (1617), e ancora l’italico Hayez (1850). Caravaggio mai se ne occupò, per gusti alternativi”.
 
Suspense – Eco la traduce con “indugio” (“Sei passeggiate nei boschi narrativi”) – non la traduce propriamente (saprebbe di italianizzazioni mussoliniane?), utilizza indugio dove ci si aspetterebbe suspense, come artificio narrativo.
 
West – È creazione di una donna, la scrittrice Dorothy Johnson – ma non soltanto. Cominciò a “cerare” il West nel 1935, con i racconti che il “Saturday Evening Post”, la rivista popolare, le pubblicava. Dai suoi racconti sono stati tratti western di culto, se non fra i primi. “Il Wild West è figlio di una donna”, può titolare “La Lettura”, precedendo una riedizione di Dorothy Jonhson. “L’uomo che uccise Liberty Valance”.
In realtà il Wild West data dagli anni 1880, da Buffalo Bil e il suo circo, in giro per l’America e il mondo, “Buffalo Bill Wild West Show”). E molti autori hanno preceduto Johnson, non solamente americani. Le storie danno l’inizio letterario del West nel 1902, con la pubblicazione de “Il virginiano”, romanzo di Owen Wister. Ma già aveva riscosso grande successo un scrittore tedesco, Karl May, che aveva cominciato a raccontare di indiani, cowboy e saloon, nel 1875. Tra l’altro influenzando molti connazionali, dato il successo arriso al genere. Tra essi Carl Laemmie, che sarebbe poi emigrato negli Stati Uniti, e vi avrebbe fondato la Universal Pictures. May peraltro confessava di essersi ispirato a “L’ultimo dei Mohicani”, la saga di James Fenimore Cooper, del 1826.
Dopo e più di Wister portarono il genere al successo gli americani Zane Grey e Elmore Leonard. E più di tutti Louis l’Amour, che era americano, Louis LaMoore.
Poco il genere ha attecchito con gli scrittori italo-americani. Ma un nome le storie ricordano, Charles Angelo Siringo – avvocato, investigatore e cacciatore di teste (dette anche lui la caccia a Billy the Kid), figlio di genovesi (il suo primo lavoro retribuito era stato da cowboy).

letterautore@antiit.eu

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