Giuseppe Leuzzi
“Cristo non è a Eboli, dove si è fermato?”, si
chiedeva un mese fa sul “Crrire dela sera” Paolo Di Stefano. Turbato forse dal
parricidio opera di uno squilibrato, ma allargando l’obiettivo: “Ora non voglio
demonizzare Eboli, ma la slavina di brte notizie proveniente da quella città-simbolo
fa pensare, appunto, che il «dolore terrestre» di cui scriveva Levi non è più confinato
in una «terra oscura» ma si è diffuso un po’ ovunque”. La «terra oscura»
riacquista legittimità? Nel crimine comune?
Schiavone, “Sandokan”, “Il re
dei Casalesi”, che ora si pente, dopo 26 anni al 41 bis, a suo tempo il
superriecrcato numero uno, fu catturato, dice il vicequestore che lo catturò,
nella sua casa, a Casal di Principe, dove viveva con la moglie e i figli
piccoli.
Si prepara una serie Netflix
in costume, in cui i briganti del Sud sono donne: una contadina malsposata, la
moglie ammazzasette di un capobrigante, e una risorgimentale socialista.
Dacché la “donna del Sud” è uscita
dal cliché lombardo-veneto, se ne fa l’avamposto del femminismo. Ma la
“cosa” è più complessa – la donna del Sud anzitutto è madre.
Sudismi\sadismi
L’Inter ha, fa sapere, spiega con lunghe dichiarazioni, un
problema di mafia nella sua curva allo stadio. Di ‘ndrangheta specificamente. Di un paio di
calabresi criminali (ma non incriminati) che vanno allo stadio. Per vendere droga? No. Per corrompere i
calciatori? No. Per rivendersi i biglietti? Forse. Non sono i soli, anzi - saranno due delle
miriadi di topi nel formaggio. Ma non c’è crimine se non c’è mafia.
Ricordando in consiglio comunale Miran Hrovatin, il fotoreporter ucciso trent’anni fa a Mogadiscio, il presidente del consiglio, Francesco di Paola Panteca, ne avrebbe sbagliato nome e sesso, parlando di Miriam, uccisa. È quello che sul “Corriere della sera” si precipita a denunciare il superleghista Stella – sull’autorità, non dichiarata, di una consigliera grillina, Richetti, e di una consigliera grillina trombata alle elezioni, Danielis. Una satira di Panteca, miserabile “brindisino d’origine” – di cui storpia il nome di battesimo, chiamandolo “Francesco Di Paola (nome) Panteca (cognome)”. Se non che, come “brindisino”, o comunque di madre sicuramente meridionale, se lo ha voluto battezzato come Francesco di Paola, non il san Francesco per antonomasia, quello di Assisi, Panteca avrà la pronuncia larga, consonantica e vocalica, tra betacismi, palatalizzazioni e rotacismi - il cosiddetto “napoletano” della Linguistica.
Ma peggio Panteca ha fatto rispondendo agli sberleffi grillini, questa volta per iscritto: “Io sono a Trieste dal 1979. E conoscevo personalmente Miran Hrovatin. L’ho conosciuto come fotografo a Sgonico dove svolgevo il mio lavoro di attività lavorativa”. Cioè con una pezza peggiore del buco, per dirla alla Stella, il “lavoro di attività lavorativa” invece che investigativa, da luogotenente della Finanza. Condanna irreversibile.
Questo Panteca
deve avere sugli ottant’anni, se nel 1979 lo mandarono a Sgonigo, col grado di luogotenente,
il secondo più alto degli ispettori di Finanza, subito sopra il maresciallo. Ha sprecato
i due terzi della
sua vita.
La
mafia, eccola qua
La
realtà dei fatti sui Capriati di Bari smentisce l’allegra versione del
presidente della Regione Puglia
Emiliano. Sui suoi contatti ravvicinati con la famiglia del capoclan di Bari
Vecchia, Antonio Capriati,
“Tonino”, oggi 67nne. Uno che al processo – ai processi, a cavaliere del 2000 –
si presentava
in camicia bianca,
cravatta, occhiali da vista a goccia, anticipando la tendenza, e onde di parrucchiere, come un
professionista perbene. Da tempo in carcere, e dal 2008 definitivamente all’ergastolo, in
cattività ha continuato a gestire gli affari: estorsioni, usura, stupefacenti.
Attraverso il nipote Raffaele
detto “Lello”, figlio del fratello Sabino, 39 anni, ora assassinato da cosche
rivali. Un altro nipote, Domenico, era stato assassinato nel 2018, a 49 anni. In
precedenza altri due nipoti, collaterali, Filippo e Pietro, avevano assunto la
gestione del
clan,
moltiplicandone le ramificazioni nella provincia di Bari, e fino in Basilicata.
Arrestati nel 2018, di
aprile, e condannati i due nipoti, il clan aveva continuato a prosperare. Una
retata a settembre
ha portato a sessanta arresti, parte di una struttura “verticistica e gerarchizzata”
- con 600 mila euro
in contanti in capo al membro del clan che gestiva le slot machines.
Un clan
di “impuniti”, in un certo senso – nel senso romano della parola. E di
assassini. Non di mammolette,
come s’immaginava ascoltando Emiliano. Nei giorni in cui il presidente della
Regione Puglia, ex giudice antimafia, pubblico accusatore di Tonino in Tribunale, raccontava il
suo aneddoto
pacioso, un altro nipote, Vincent, figlio di una sorella di Tonino, Elisabeth o
Elisabetta,che ritroveremo,
si passava il tempo inneggiando sui social allo zio ergastolano.
Non sono i Capriati la famiglia tutto sommato innocua che Emiliano, non un semplice, già giudice antimafia, già sindaco di Bari, già concorrente pure alla segreteria del Pd, lascia intendere con la storiella che lo ha portato sulle prime pagine. Raccontata a una manifestazione indetta dal Pd in solidarietà col sindaco in carica, Decaro, la cui giunta è stata messa sotto inchiesta dal ministero dell’Interno. Qualche anno dopo l’incontro ravvicinato e risolutivo da lui raccontato con una sorella del boss, nel 2001, ci fu una faida tra i Capriati e i concorrenti Strisciuglio, con molti morti, tra cui un ragazzo ucciso per errore, a sedici anni, Michele Fazio. “Lello”, ora assassinato, si è fatto sedici anni di carcere per “concorso” nell’assassinio del ragazzo Fazio – era stato scarcerato un anno e mezzo fa.
Scarcerato,
coincidenza, con due cugini figli di Tonino, Giuseppe detto “Ciccio” e Francesco
detto “Ceschetto”,
e con un suo proprio figlio, Sabino (in onore del nonno, fratello di Tonino). Il giovanissimo
Sabino era in carcere da due anni per traffico di droga. Giuseppe detto “Ciccio”
anche lui si
era fatto due anni, per scommesse illegali. Francesco detto “Ceschetto”, 46
anni, usciva dopo diciassette
anni di carcere. Per traffico di droga e di armi. Un boss di suo, a Valenzano, sposato
con Marina
Stramaglia, oggi 42nne, figlia ed erede del locale boss, Michelangelo, assassinato
da un concorrente
nel 2009 – una morte di cui la figlia aveva organizzato la vendetta. In
carcere, “Ciccio” ha
potuto concepire con Marina un erede.
Anche le
donne fanno parte del malaffare nel clan Capriati. Nel 2011, al termine della solita
lunga sequela
di giudizi, la Cassazione ne condannò dieci per associazione mafiosa. Tra esse
la principale era la moglie dello stesso Antonio Capriati, Maria Faraone: gestiva l’usura e il pizzo. Inoltre,
erano una
cosca, i Capriati, non piccola: al processo conclusosi in Cassazione a maggio
del 2011, il clan risultava
controllare (pizzo obbligatorio) Bari Vecchia, parte del Rione Murattiano, e
Modugno.
Non c’è
limite, insomma, né di articolazione familiare né di generazione, alla propensione
dei Capriati
al crimine. E di Antonio Capriati si ricorda che ancora nel 2004, nei dodici giorni
di libertà che godette
tra un processo e l’altro, impose un’estorsione a un concessionario di auto:
una Y 10 da regalare
alla figlia per i diciotto anni.
Questa
la tela di fondo. Su cui non c’è giustificazione che tenga. Compresa la premura
di una sorella
di Tonino, Ida, che con l’aiuto del Tg 1 ha provato ad accreditare la versione
di un Emiliano un po’
svanito – “non è mai stato qui”. Brutta politica, nella migliore delle ipotesi
politichicchia.
Ma l’aneddoto
di Emiliano, che ha messo in difficoltà il suo (ex?) figlioccio politico e ora
sindaco di Bari,
Decaro, non va per questo liquidata, come imprudenza, o impudenza. Che cosa
ha detto Emiliano? Secondo la versione più attendibile, quella cui si attiene
la Commissione
parlamentare antimafia, questo: “Un giorno sento bussare alla porta, Decaro
entra, bianco
come un cencio, e mi dice che era stato a piazza san Pietro e uno gli aveva
messo una pistola dietro la
schiena perché lui stava facendo i sopralluoghi per la ztl di Bari Vecchia. Lo
presi, in due andammo
a casa della sorella di Antonio Capriati, che era il boss di quel quartiere, e
andai a dirle che
questo ingegnere è assessore mio e deve lavorare, perché c’è il pericolo che
qui i bambini possano
essere investiti dalle macchine. Quindi, gli ho detto, se ha bisogno di bere,
se ha bisogno di assistenza,
te lo affido”. “Le” ho detto sarebbe stato più preciso, ma la sostanza c’è:
Emiliano, allora sindaco
di bari, ex giudice antimafia, di fronte a una minaccia mafiosa non denuncia ma
si accorda – sa anche
che le donne in quel clan contano, non è scontato.
Questa è
l’apparenza della cosa. Lo scandalo conseguente è in sintonia con l’antimafia
che ci Governa.
Dopodiché si scopre che Antonio Capriati è in carcere da trent’anni e più.
La questione
è politica – compresa la curiosa sbadatezza dei cronisti, che glissano su molte
cose che pure sono
nei loro archivi se non nella memoria, per cui merita ricostruire la vicenda
nel contesto. Ma sul
piano del costume, e anche del diritto, Emiliano dice una cosa giusta, che non si
vede perché non si
applica: l’arresto e la condanna dei mafiosi, come di qualsiasi altro criminale.
Subito, dopo il delitto. E la prevenzione del delitto, se se ne ha il sospetto.
Si parla
di mafie come se fossero quella siciliana di fine Novecento. Una storia che ha dell’incredibile:
due uomini da nulla, Riina dopo Liggio, che con con una banda di stupidi, per quanto sadici,
per quarant’anni hanno compiuto violenze incredibili, assassinando centinaia e
forse migliaia
di persone, compresi un centinaio di alti rappresentanti dello Stato, giudici, parlamentari, politici,
sindacalisti, commissari di Polizia, questori, maggiori e colonnelli dei Carabinieri,
generali.
Un
passato recente spaventoso, a guardarlo in retrospettiva, opera di bande di
nessuna qualità, si è saputo dopo
che sono stati catturati - in larga parte, purtroppo, pentiti, “collaboratori”
e “testimoni di giustizia”…
Il crimine si combatte subito e direttamente, senza teorizzare, la politica o
la società.
Le “famiglie”? Sì, sono complicate. Prendiamo le Capriati che si sono fatte il selfie con l’ignaro Decaro alla festa patronale. Annalisa Milzi, la giovane della foto, nipote collaterale di “Tonino”, sposata con Tonino Cortone, “una vita dedicata alla scrittura di libri sulla storia di Bari e sulle sue icone religiose” (Nicolò Delvecchio, “Corriere della sera”). Sua madre Isabella Capriati, sorella di “Tonino”, sposata Milzi, può dire: “Io lavoro da 50 anni e ho sempre fatto le cose per bene”. L’altro suo figlio, Vincent, è quello che sui selfie con Decaro, fratello di Annalisa, celebra sui social lo “zio Tonino”, e si proclama “sempre al tuo fianco”. Nella famiglia Capriati erano undici, tra fratelli e sorelle.
leuzzi@antiit.eu
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