giovedì 11 aprile 2024

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (556)

Giuseppe Leuzzi


Trent’anni fa, quando l’Istat registrava per la prima volta il calo demografico nazionale, l’entità del calo era ammortizzata dalla prolificità del Sud – rispetto, p.es., alle quasi zero nascite di Genova o Trieste. Ma subito poi la ripresa delle migrazioni interne ha ridotto la natalità al Sud rapidamente, al punto che dieci-dodici anni più tardi, nel 2006 per l’esattezza, l’Istat documentava una natalità al Sud, come macro-regione, più bassa del Centro e del Nord. Cosa è cambiato? La prospettiva: i venti-trentenni hanno la prospettiva al Sud o dell’emigrazione, che comporta molti costi, oppure della “restanza”, alla Vito Teti, ma senza prospettive. Non tali da consentire di avere dei figli.
 
Si colpisce all’improvviso a Bari il “mercato delle influenze”, della politica, delle giunte di sinistra al Comune e alla Regione – probabilmente perché a Roma c’è un governo di destra. Perché “all’improvviso”? Perché a Bari è notorio, come in Sicilia e in Calabria, e a Napoli, la politica non c’è all’infuori del “mercato” – il mercato della politica è normale, è la normalità della politica. E della sua poca rilevanza.
  
Antropologia del Sud
Andrea Zavattini, fotografo, figlio di Cesare, iniziò l’attività per caso, nel 1952, al seguito di Ernesto De Martino. “Lo conobbi nella nostra casa romana”, racconta ad Antonio Gnoli su “Robinson”: “Avendo saputo che ero interessato alla fotografia mi invitò a unirmi a lui e al suo gruppo per un viaggio di studio al Sud”. Non fu una grande esperienza (“Come fu il vostro rapporto?” “Abbastanza inesistente. Venni lasciato a me stesso”). Ma di una cosa Zavattini jr. ebbe chiara percezione.
“Dopo tante esitazioni”, ricorda, “la scelta cadde su Tricarico, il paese di Rocco Scotellaro. De Martino alloggiò nella casa dei genitori di Scotellaro, dove qualche anno prima aveva dormito anche Fosco Maraini….”. E alla domanda successiva, “che cosa rappresentava Tricarico per De Martino”, riponde netto: “Doveva simboleggiare il Sud. L’inizio di un altrove segnato dai tratti primigeni di una società «autentica», rituale, premoderna. Quel che trovò fu un mondo di inaudita durezza abitato da vinti, un mondo dove era stata cancellata la speranza. Nel cercare le radici di una storia antica trovò dolore e solitudine. Era il muto racconto di gente che non aveva più voce a colpirlo, a smuovere i sensi di colpa dell’intellettuale che improvvisamente scopriva tutta la sua impotenza”.
Scopriva il Sud, che per un napoletano è terra incognita. Il Sud in realtà è sfuggito a De Martino - che l’antropologia ricorda per tre cose, non le spedizioni al Sud.
 
Il Sud vuole lo Stato
Gaetano Salvemini, come storico, insieme al suo maestro Pasquale Villari, e come polemista politico all’origine della “questione meridionale”, da sempre critico dei Savoia, dell’unificazione-annessione, e dei governi”sabaudi”, fino a Giolitti, l’anno stesso in cui, dopo le bastonature squadriste subite da Gobetti, decideva di esiliarsi, contribuiva con un lungo saggio a un volume collettaneo organizzato dall’università di Padova, sull’unità d’Italia, nell’ambito di un progetto di storia dell’Europa (L’italia politica nel secolo XIX, in L’Europa nel secolo XIX, 1mo vol., a cura di Donato Donati, Filippo Carli, Padova 1925, pp. 323-401), in cui poneva considerazioni di altro tipo: “Ma ci si lamenta dei piemontesi. Ma cosa dovevano fare i piemontesi?, arrivavano in un Meridione dove non c’erano strade, non c’erano acquedotti, non c’erano scuole, dove la piccola e media borghesia erano talmente deboli che potevano essere protette soltanto da un forte esercito e da uno Stato moderno”.
Un concetto - la salvezza attraverso lo Stato - che già aveva abbozzato nel 1922, introducendo la sua antologia “Le più belle pagine di Carlo Cattaneo”, l’amato (fino alla svolta mazziniana, sempre repubblicana ma unitaria) federalista: l’ipotesi federalista non poteva fare l’unità, l’unità si poteva solo con un sistema politico e istituzionale accentrato, sul modello francese. Per la ragione che il Nord avrebbe potuto, sì, permettersi forme di autogoverno, avendo una borghesia numerosa, attiva e florida, mentre al Sud l’arretratezza economica e sociale, il legittimismo clericale, il brigantaggio – e persino l’orientamento hegeliano prevalente nei gruppi liberali e patriottici – spingevano verso, e forse necessitavano, uno Stato centralista. Non solo, anche monarchico, non più repubblicano quale Salvemini aveva postulato fino ad allora.
 
L’antimafia paga
Il giudice Luca Tescaroli, di Adria, in provincia di Rovigo, ora Procuratore di Prato, aveva fatto l’agognato balzo in carriera, dopo trent’anni, vice-Procuratore a Firenze, nel 2018 grazie
 all’“interessamento” di Luca Palamara, l’aggiusta-carriere dei giudici al Csm, ora radiato dai ruoli. Era stato variamente bocciato in precedenza, allora si rivolse a Palamara, e il Csm lo designò all’unanimità.

Il neo Procuratore non era stato promosso prima, spiegò a Perugia, al processo contro Palamara, perché vittima dei poteri occulti: “Avevo gestito determinati procedimenti particolarmente sensibili che avevano inciso nei confronti dei detentori del potere”. Questi poteri occulti erano la la mafia. Che però poi non gli ha impedito di arrivare al vertice a 59 anni, fatto insolito nella magistratura.
A Firenze il giudice Tescaroli ha coordinato l’indagine su Kata, la bambina peruviana “scomparsa” il 10 giugno, riuscendo a non combinare nulla. In compenso ha “lavorato” sei anni per dimostrare che Berlusconi e Dell’Utri hanno organizzato le stragi del 1993, a Roma, Firenze e  Milano. E una fallita allo stadio Olimpico di Roma a gennaio del 1994 (Roma-Udinese? Roma-Genoa? non si sa ancora bene, il vangelo qui è Spatuzza, che ha molti assassinii, almeno un centinaio, ma poca memoria, dipende dai giudici). Come li abbiano organizzati non si sa. Il motivo invece è certo: “Per indebolire il governo Ciampi”, dice il giudice Tescaroli, e per “diffondere il panico e la paura tra i cittadini, in modo da favorire l’affermazione del progetto politico di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri”. Cioè di Forza Italia, che doveva sostituire Ciampi.
Ogni paio di mesi in questi anni il giudice Tescaroli ha confidato a un suo cronista una pagina sulle “nuove carte” che, insomma, stanno per arrivare, e accusano Dell’Utri e accusavano Berlusconi. E nessuno ha osato dirgli niente. Anzi, carriera fatta.
 
Le assicurazioni “napolitane”
Lamenta un lettore di Napoli, Elia Molfini, sul “Corriere della sera”, che le assicurazioni gli fanno pagare le polizze auto “tre o quattro volte in più rispetto ai milanesi, torinesi, genovesi, etc.”, giustificando il sovraccarico “con un maggior numero di sinistri al Sud”. Obbietta giustamente che “la reponsabilità deve essere individuale”. Ma il fatto non è questo: è che a Napoli tutto concorre, chi denncia un sinistro, l’agente assicuratore, e il perito, per “dividere” il maggior risarcimento possibile. Come dire: “Denunciate, l’assicurazione pagherà”.
È Napoli, si dice. Ma le compagnie di assicurazione, che sono lombarde, torinesi e da qualche tempo bolognesi, stanno al gioco. Tanto, poi si rifanno, imponendo polizze tre e quattro volte la “perizia”.
Sembra impossibile, tanta corruzione, ma è così: due ricorsi all’Ivass contro l’imputazione di incidenti “napoletani” mai avvenuti, da parte di assicurazione primaria, se non la più grande nel ramo danni, hanno dato esito negativo: la compagnia ha preso le parti di agenzia e perito.
Sembra impossibile – va contro l’interesse della compagnia – ma è così. È anche una sorta di tassazione che mette l’assicurato nell’impossibilità di cambiare compagnia, perché nel registro nazionale della classe di merito risulterà di sinistrosità elevata, mentre la compagnia della “pastetta” può non tenerne conto. “Napolitane” sono le assicurazioni, che non sono di Napoli.
 
Cronache della differenza: Milano
È curioso leggere sul “Corriere della sera”, un giornale che alle elezioni si dichiara per il Pd, l’entusiasmo per Sinner, Jacobs, Iapichino, Howe, Mahmood, non per il loro atletismo o la loro  musicalità (e la fatica e l’applicazione oltre alla genialità), ma perché “portano in alto il tricolore”. Milano ingorda non si perde nulla: si vuole progressista e ruba la scena anche a Meloni.
 
Celebra Radetsky, che per ogni aspetto si considererebbe un nemico, e manda deserto il ricordo ogni anno dele Cinque Giornate, che si penserebe ne abbiano fatto la gloria. In fondo è provinciale, voleva solo essere la periferia dell’impero.
 
Sulle Cinque Giornate, che fecero centinaia di morti, ricchi e poveri, e molte donne, ha fatto un film Dario Argento, con Adriano Celentano. Un romano con un pugliese.
 
“Cristina di Belgioioso, la nobildonna milanese tra le cui braccia spirò Goffredo Mameli, parlava con accento napoletano”, Alzo Cazzullo. Magari sarà vero: si vergognava di essere milanese?
 
“L’Ottocento a Milano fu grandioso”, sempre Cazzullo sul “Corriere della sera”. Ma “paradossalmente ha custodito di più la memoria del Risorgmento Roma, dal teatro al cinema, da Rugantino al film di Magni” – Roma dove “nell’Ottocento non accadde quasi nulla”, a parte “la preziosa ma effimera Repubblica”.
 
Il maggiore studioso di Carlo Cattaneo nel Novecento,  l’ideologo lombardo del federalismo, dela democazia diffusa, è stato e resta un meridionale, Gaetano Salvemini, di Molfetta.
 
“Il contributo statale che Roma riceve per il trasporto pubblico locale”, lamenta il sindaco Gualtieri, “è tra i più bassi in Italia in proporzione alla superficie, 85 euro per cittadino contro i 191 di Milano”. Che bisogno c’è dell’autonomia differenziata? Alla Lega non basta mai.
 
Però, la denuncia del sindaco di Roma Gualtieri è un giornale di Milano che la raccoglie, “Il Sole 24 Ore”. C’è intelligenza nella prepotenza, l’egemonia non nasce dal nulla.
 
Negò prima e oscurò dopo, per oltre un secolo, la “Storia della colonna infame”, benché opera storica di autore considerevole e considerato - e appendice (omessa) del Romanzo Nazionale. Qui non si poteva nemmeno dare la colpa alla Spagna.
 
La polemica è vecchia di quasi trent’anni, per la ripresa nel 1996, il 7 dicembre, in apertura di stagione alla Scala, dell’“Armide” di Gluck, l’opera preferita dal compositore ma non popolare, basata sulla “Gerusalemme liberata”. Il “Times” di Londra si disse scandalizzato nella corrispondenza per il costo: “Hanno speso in una rappresentazione gli interi bilanci annuali del Covent Garden e del Coliseum”. La Scala si difese: “I bilanci chiudono in pareggio dal 1984”. Il giornale ribatté: con 78 miliardi dello Stato, più del doppio del Covent Garden, che ci fa una stagione, tra opere, balletti e concerti, di 300 giorni, contro i 50 scarsi della Scala.
 
All’epoca le polemiche erano violente contro il porto di Gioia Tauro, “inventato”, cioè interamente scavato in mare. Ma l’autostrada del Fréjus, 96 km., era costata 4 mila miliardi di lire. Quattro volte più dei 5 km. di banchine attrezzate del porto canale di Gioia Tauro.
 
Ogni giorno un pezzo forte del “Corriere della sera” contro i fratelli Elkann – che non si riesce a leggere, scontato l’odio della madre per questi tre figli, ma questo si sa da anni. Rei? Ma non si sa ancora, non di che cosa. Odio degli Elkann per il salvataggio del gruppo “la Repubblica” – ma non è un relitto, da diritto della navigazione? Odio degli Elkann ebrei? Impossibile. No, è solo che gli Elkann non fanno affari a Milano. Ne fanno molti, e danarosi, ma altrove: a Amsterdam, a New York, in Asia perfino, ma non a Milano. Che ha spogliato da quarant’anni Torino di tutto, banche, tecnologie, potere politico, ma evidentemente non del tutto.
 
Niente mafia, niente caporalato a Milano per il gruppo Armani, che fa lavorare le borse da 1.800 euro per 75 euro di costo, da un opificio cinese di Lombardia, con poca igiene, stipato di maestri cinesi di taglio e cucito pagati quattro ore per dieci di lavoro. 


“L’emissione complessiva di CO2 continua ad aumentare, però Pechino spesso ha un’aria meno inquinata di Milano” – Federico Rampini, “Corriere della sera”.

leuzzi@antiit.eu

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