A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (556)
Giuseppe Leuzzi
Trent’anni fa, quando l’Istat registrava per la prima
volta il calo demografico nazionale, l’entità del calo era ammortizzata dalla prolificità
del Sud – rispetto, p.es., alle quasi zero nascite di Genova o Trieste. Ma
subito poi la ripresa delle migrazioni interne ha ridotto la natalità al Sud
rapidamente, al punto che dieci-dodici anni più tardi, nel 2006 per l’esattezza,
l’Istat documentava una natalità al Sud, come macro-regione, più bassa del
Centro e del Nord. Cosa è cambiato? La prospettiva: i venti-trentenni hanno la prospettiva
al Sud o dell’emigrazione, che comporta molti costi, oppure della “restanza”,
alla Vito Teti, ma senza prospettive. Non tali da consentire di avere dei
figli.
Si colpisce all’improvviso a
Bari il “mercato delle influenze”, della politica, delle giunte di sinistra al
Comune e alla Regione – probabilmente perché a Roma c’è un governo di destra. Perché
“all’improvviso”? Perché a Bari è notorio, come in Sicilia e in Calabria, e a
Napoli, la politica non c’è all’infuori del “mercato” – il mercato della politica
è normale, è la normalità della politica. E della sua poca rilevanza.
Antropologia del Sud
Andrea Zavattini, fotografo, figlio di
Cesare, iniziò l’attività per caso, nel 1952, al seguito di Ernesto De Martino.
“Lo conobbi nella nostra casa romana”, racconta ad Antonio Gnoli su “Robinson”:
“Avendo saputo che ero interessato alla fotografia mi invitò a unirmi a lui e
al suo gruppo per un viaggio di studio al Sud”. Non fu una grande esperienza (“Come
fu il vostro rapporto?” “Abbastanza inesistente. Venni lasciato a me stesso”).
Ma di una cosa Zavattini jr. ebbe chiara percezione.
“Dopo tante esitazioni”, ricorda, “la
scelta cadde su Tricarico, il paese di Rocco Scotellaro. De Martino alloggiò nella
casa dei genitori di Scotellaro, dove qualche anno prima aveva dormito anche Fosco
Maraini….”. E alla domanda successiva, “che cosa rappresentava Tricarico per De
Martino”, riponde netto: “Doveva simboleggiare il Sud. L’inizio di un altrove
segnato dai tratti primigeni di una società «autentica», rituale, premoderna. Quel
che trovò fu un mondo di inaudita durezza abitato da vinti, un mondo dove era
stata cancellata la speranza. Nel cercare le radici di una storia antica trovò
dolore e solitudine. Era il muto racconto di gente che non aveva più voce a
colpirlo, a smuovere i sensi di colpa dell’intellettuale che improvvisamente
scopriva tutta la sua impotenza”.
Scopriva il Sud, che per un napoletano è
terra incognita. Il Sud in realtà è sfuggito a De Martino - che l’antropologia
ricorda per tre cose, non le spedizioni al Sud.
Il
Sud vuole lo Stato
Gaetano Salvemini, come
storico, insieme al suo maestro Pasquale Villari, e come polemista politico
all’origine della “questione meridionale”, da sempre critico dei Savoia,
dell’unificazione-annessione, e dei governi”sabaudi”, fino a Giolitti, l’anno
stesso in cui, dopo le bastonature squadriste subite da Gobetti, decideva di
esiliarsi, contribuiva con un lungo saggio a un volume collettaneo organizzato
dall’università di Padova, sull’unità d’Italia, nell’ambito di un progetto di storia
dell’Europa (L’italia politica nel secolo XIX,
in L’Europa nel secolo XIX, 1mo vol., a cura di Donato Donati, Filippo
Carli, Padova 1925, pp. 323-401), in cui poneva
considerazioni di altro tipo: “Ma ci si lamenta dei piemontesi. Ma cosa
dovevano fare i piemontesi?, arrivavano in un Meridione dove non c’erano
strade, non c’erano acquedotti, non c’erano scuole, dove la piccola e media
borghesia erano talmente deboli che potevano essere protette soltanto da un
forte esercito e da uno Stato moderno”.
Un concetto - la salvezza
attraverso lo Stato - che già aveva abbozzato nel 1922, introducendo la sua
antologia “Le più belle pagine di Carlo Cattaneo”, l’amato (fino alla svolta
mazziniana, sempre repubblicana ma unitaria) federalista: l’ipotesi federalista
non poteva fare l’unità, l’unità si poteva solo con un sistema politico e
istituzionale accentrato, sul modello francese. Per la ragione che il Nord
avrebbe potuto, sì, permettersi forme di autogoverno, avendo una borghesia
numerosa, attiva e florida, mentre al Sud l’arretratezza economica e sociale,
il legittimismo clericale, il brigantaggio – e persino l’orientamento hegeliano
prevalente nei gruppi liberali e patriottici – spingevano verso, e forse
necessitavano, uno Stato centralista. Non solo, anche monarchico, non più
repubblicano quale Salvemini aveva postulato fino ad allora.
L’antimafia
paga
Il
giudice Luca Tescaroli, di Adria, in provincia di Rovigo, ora Procuratore di
Prato, aveva fatto l’agognato
balzo in carriera, dopo trent’anni, vice-Procuratore a Firenze, nel 2018 grazie all’“interessamento”
di Luca Palamara, l’aggiusta-carriere dei giudici al Csm, ora radiato dai
ruoli. Era stato
variamente bocciato in precedenza, allora si rivolse a Palamara, e il Csm lo
designò all’unanimità.
Il neo
Procuratore non era stato promosso prima, spiegò a Perugia, al processo contro
Palamara, perché
vittima dei poteri occulti: “Avevo gestito
determinati procedimenti particolarmente sensibili che
avevano inciso nei confronti dei detentori del potere”. Questi poteri occulti
erano la la mafia. Che però poi non gli ha impedito di arrivare al
vertice a 59 anni, fatto insolito nella magistratura.
A
Firenze il giudice Tescaroli ha coordinato l’indagine su Kata, la bambina
peruviana “scomparsa”
il 10 giugno, riuscendo a non combinare nulla. In compenso ha “lavorato” sei
anni per dimostrare
che Berlusconi e Dell’Utri hanno organizzato le stragi del 1993, a Roma,
Firenze e Milano.
E una fallita allo stadio Olimpico di Roma a gennaio del 1994 (Roma-Udinese?
Roma-Genoa?
non si sa ancora bene, il vangelo qui è Spatuzza, che ha molti assassinii,
almeno un centinaio,
ma poca memoria, dipende dai giudici). Come li abbiano organizzati non si sa.
Il motivo invece
è certo: “Per
indebolire il governo Ciampi”, dice il giudice Tescaroli, e per “diffondere il panico e la paura tra i cittadini, in modo da
favorire l’affermazione del progetto politico di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri”. Cioè
di Forza Italia, che doveva sostituire Ciampi.
Ogni
paio di mesi in questi anni il giudice Tescaroli ha confidato a un suo cronista
una pagina sulle “nuove
carte” che, insomma, stanno per arrivare, e accusano Dell’Utri e accusavano
Berlusconi. E nessuno
ha osato dirgli niente. Anzi, carriera fatta.
Le assicurazioni
“napolitane”
Lamenta un lettore di Napoli,
Elia Molfini, sul “Corriere della sera”, che le assicurazioni gli fanno pagare le
polizze auto “tre o quattro volte in più rispetto ai milanesi, torinesi, genovesi,
etc.”, giustificando il sovraccarico “con un maggior numero di sinistri al Sud”.
Obbietta giustamente che “la reponsabilità deve essere individuale”. Ma il fatto
non è questo: è che a Napoli tutto concorre, chi denncia un sinistro, l’agente
assicuratore, e il perito, per “dividere” il maggior risarcimento possibile.
Come dire: “Denunciate, l’assicurazione pagherà”.
È Napoli, si dice. Ma le
compagnie di assicurazione, che sono lombarde, torinesi e da qualche tempo
bolognesi, stanno al gioco. Tanto, poi si rifanno, imponendo polizze tre e quattro
volte la “perizia”.
Sembra impossibile, tanta
corruzione, ma è così: due ricorsi all’Ivass contro l’imputazione di incidenti “napoletani”
mai avvenuti, da parte di assicurazione primaria, se non la più grande nel ramo
danni, hanno dato esito negativo: la compagnia ha preso le parti di agenzia e
perito.
Sembra impossibile – va
contro l’interesse della compagnia – ma è così. È anche una sorta di tassazione
che mette l’assicurato nell’impossibilità di cambiare compagnia, perché nel
registro nazionale della classe di merito risulterà di sinistrosità elevata,
mentre la compagnia della “pastetta” può non tenerne conto. “Napolitane” sono
le assicurazioni, che non sono di Napoli.
Cronache
della differenza: Milano
È
curioso leggere sul “Corriere della sera”, un giornale che alle elezioni si
dichiara per il Pd, l’entusiasmo
per Sinner, Jacobs, Iapichino, Howe, Mahmood, non per il loro atletismo o la
loro musicalità
(e la fatica e l’applicazione oltre alla genialità), ma perché “portano in alto
il tricolore”. Milano ingorda
non si perde nulla: si vuole progressista e ruba la scena anche a Meloni.
Celebra Radetsky, che per ogni aspetto si
considererebbe un nemico, e manda deserto il ricordo ogni anno dele Cinque
Giornate, che si penserebe ne abbiano fatto la gloria. In fondo è provinciale,
voleva solo essere la periferia dell’impero.
Sulle Cinque Giornate, che fecero centinaia
di morti, ricchi e poveri, e molte donne, ha fatto un film Dario Argento, con
Adriano Celentano. Un romano con un pugliese.
“Cristina
di Belgioioso, la nobildonna milanese tra le cui braccia spirò Goffredo Mameli,
parlava con accento
napoletano”, Alzo Cazzullo. Magari sarà vero: si vergognava di essere milanese?
“L’Ottocento a Milano fu grandioso”, sempre
Cazzullo sul “Corriere della sera”. Ma “paradossalmente ha custodito di più la
memoria del Risorgmento Roma, dal teatro al cinema, da Rugantino al film di
Magni” – Roma dove “nell’Ottocento non accadde quasi nulla”, a parte “la preziosa
ma effimera Repubblica”.
Il maggiore studioso di Carlo Cattaneo nel
Novecento, l’ideologo lombardo del
federalismo, dela democazia diffusa, è stato e resta un meridionale, Gaetano
Salvemini, di Molfetta.
“Il contributo statale che Roma riceve per
il trasporto pubblico locale”, lamenta il sindaco Gualtieri, “è tra i più bassi
in Italia in proporzione alla superficie, 85 euro per cittadino contro i 191 di Milano”. Che bisogno c’è dell’autonomia differenziata? Alla Lega non
basta mai.
Però, la denuncia del sindaco di Roma
Gualtieri è un giornale di Milano che la raccoglie, “Il Sole 24 Ore”. C’è
intelligenza nella prepotenza, l’egemonia non nasce dal nulla.
Negò prima e oscurò dopo, per oltre
un secolo, la “Storia della colonna infame”, benché opera storica di autore considerevole e considerato
- e appendice (omessa) del Romanzo Nazionale. Qui non si poteva nemmeno dare la colpa
alla Spagna.
La polemica è vecchia di quasi trent’anni,
per la ripresa nel 1996, il 7 dicembre, in apertura di stagione alla Scala, dell’“Armide”
di Gluck, l’opera preferita dal compositore ma non popolare, basata sulla “Gerusalemme
liberata”. Il “Times” di Londra si disse scandalizzato nella corrispondenza per il costo: “Hanno
speso in una rappresentazione gli interi bilanci annuali del Covent Garden e del Coliseum”. La
Scala si difese: “I bilanci chiudono in pareggio dal 1984”. Il giornale ribatté: con 78 miliardi
dello Stato, più del doppio del Covent Garden, che ci fa una stagione, tra opere, balletti e
concerti, di 300 giorni, contro i 50 scarsi della Scala.
All’epoca le polemiche erano violente
contro il porto di Gioia Tauro, “inventato”, cioè interamente scavato in mare. Ma l’autostrada
del Fréjus, 96 km., era costata 4 mila miliardi di lire. Quattro volte più dei 5 km. di banchine
attrezzate del porto canale di Gioia Tauro.
Ogni giorno
un pezzo forte del “Corriere della sera” contro i fratelli Elkann – che non si
riesce a leggere,
scontato l’odio della madre per questi tre figli, ma questo si sa da anni. Rei?
Ma non si sa ancora, non di che cosa. Odio degli Elkann per il salvataggio del gruppo “la
Repubblica” – ma non è un
relitto, da diritto della navigazione? Odio degli Elkann ebrei? Impossibile.
No, è solo che gli Elkann
non fanno affari a Milano. Ne fanno molti, e danarosi, ma altrove: a Amsterdam,
a New York, in
Asia perfino, ma non a Milano. Che ha spogliato da quarant’anni Torino di
tutto, banche, tecnologie, potere politico, ma evidentemente non del tutto.
Niente
mafia, niente caporalato a Milano per il gruppo Armani, che fa lavorare le borse
da 1.800 euro per
75 euro di costo, da un opificio cinese di Lombardia, con poca igiene,
stipato di maestri cinesi
di taglio e cucito pagati quattro ore per dieci di lavoro.
“L’emissione
complessiva di CO2 continua ad aumentare, però Pechino spesso ha un’aria meno inquinata
di Milano” – Federico Rampini, “Corriere della sera”.leuzzi@antiit.eu
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