La liberazione di Civitella
Il capo dello
Stato ha celebrato la Liberazione quest’anno a Civitella in Val di Chiana per un
motivo: la pacificazione. Non se ne fa cenno nelle corrispondenze
della manifestazione, ma la cosa è importante, la pacificazione finalmente
avvenuta tra gli eredi della Resistenza e le famiglie delle vittime delle
rappresaglie. Le stragi nazifasciste non furono solo a Marzabotto e a Sant’Anna
di Stazzema. Ci fu una guerra civile in Italia, e durò quasi due anni, dopo l’8
settembre 1943, ma già dopo il 25 luglio. Con molte incomprensioni nella
popolazione. Il racconto è in “Vorrei andarmene ma non so dove”, romanzo di
Astolfo in via di pubblicazione:
C’è un tempo della storia, un
ritmo. Che la logica non scalfisce, meno che mai quella povera del terrore o
totalitaria, che la storia vorrebbe dominare. E c’è una storia che i fatti non
scalfiscono, murata nella logica del mito. Del Vento del Nord, che fu tiepido
ma non si può dire. Di Milano che non si liberò neppure a piazzale Loreto, né
Torino, o Bologna. Della Resistenza che non fu di massa, se non in certo modo.
La linea Gotica durò due inverni e fu sfondata dagli Alleati, e fu per tutti
una tragedia, ma i lanci intensificati d’armi e vettovaglie crearono nel
Frignano e in Lunigiana posizioni forti dopo, nella ricostruzione, anche
personali.
Tra la
liberazione di Firenze, che Tito Masini e i suoi proclamarono l’11 agosto ‘44,
e la liberazione della Toscana ci furono centinaia di morti in pochi giorni,
contadini, bambini, madri, uomini anche nel pieno vigore, benché rintanati in
cascina. Kesselring lo volle: “Proteggerò ogni comandante”, promise con
ordinanza pubblica il 17 giugno, “che ecceda la nostra abituale moderazione
nella scelta e la severità dei metodi adottati contro i partigiani”. La
responsabilità va quindi al prode maresciallo della valorosa Wehrmacht. Ma
anche all’improvvisazione omicida.
A Civitella
della Chiana, in provincia di Arezzo, ci sono state cause tra le vedove, le
orfane, le sorelle dei morti da una parte e dall’altra il comandante partigiano
Edoardo Succhielli. Che le ha vinte, ma non ha domato l’odio: le donne hanno
presenziato ai processi vestite di nero. A Onna, vicino L’Aquila, si sono fatti
funerali separati nel ‘44, e ogni anno si fanno celebrazioni distinte, le
famiglie dei caduti escludendo sempre la famiglia di un giovane partigiano.
L’improvvisata Resistenza diede esca agli eroi della Wehrmacht per improvvisate
esecuzioni al mitra: quattor-dici a Pievecchia di Pontassieve l’8 giugno, più
di duecento il 4 luglio a Castelnuovo dei Sabbioni, Meleto, Massa di Sabbioni,
San Martino in Pianfranzese, tra Firenze e Arezzo. L'11 luglio altre dodici si
fecero a Matole, sempre nell’aretino, quarantaquattro il 17 a Crespino sul
Lamone, minuscola frazione di Marradi nel Mugello che non contava tanti residenti,
dodici a Pratale, alle porte di Firenze alla vigilia della liberazione. Seguiti
da Sant’Anna di Stazzema il 12 agosto, il 23 dal Padule di Fucecchio con altre
180 esecuzioni, di anziani, donne e bambini, sfollati in quel posto selvaggio
dai paesi vicini per sfuggire ai bombardamenti, e il 24 da Vinca e la valle del
Lucido, con 173 morti, molte donne, una imapalata, una sventrata per massacrane
il bambino già formato.
A Civitella
c’erano state il 29 giugno duecentotré esecuzioni, a colpo singolo alla nuca.
Alcuni giovani avevano tentato di disarmare due tedeschi che bevevano vino al
dopolavoro. Ne era seguita una sparatoria, nella quale erano morti tre
tedeschi. Anche in Toscana c’era una Resistenza, ma disorganizzata, senza
collegamenti, senza armi – con l’eccezione di Massa e Carrara, che erano parte
della Linea Gotica. A Onna le esecuzioni furono diciassette, quattordici uomini
e tre donne, tra esse la madre e la sorella di un ragazzo che aveva litigato
con un tedesco per impedirgli di requisire un cavallo, e poi dai monti aveva
tirato sull’occupante, in quanto membro di una non precisata formazione
partigiana.
La colpa è della
divisione Göring – e della Xma Flottiglia Mas e le Brigate Nere, in particolare,
in Toscana, la XL. Della Luftwaffe,
di cui la Göring era la divisione corazzata. L’aviazione tedesca aveva una
divisione corazzata, che ricostituì nel ’44 come “paracadutista-corazzata”,
anche se senza parà. Era in origine il gruppo del maggiore Wecke, Walther, che Göring,
ministro dell’Interno e Capo
della Polizia nel ‘33, aveva costituito con l’incarico di stanare i rossi nelle
forze armate di Weimar. I “paracadutisti” erano sbirri. Come tali si distinsero
in Sicilia già prima dell’8 settembre, in Campania, nel Lazio, nell’Appennino
tosco-emiliano e in Toscana, dopo essersi specializzati nel Caucaso. I tedeschi
mandavano
gli sbirri al fronte: la Waffen SS
Totenkopf, divisione scelta, portava l’uniforme delle guardie dei lager, costituita nel ’39 dal corpo di
guardia di Dachau. Dove passava la Göring si commettevano eccidi: Mascalucia e Castiglione
di Sicilia, Acerra, Nola, Scafati, Bellona, Capua, Caserta, Afragola,
Maddaloni, Teano, Presenzano, Napoli, e poi Monchio, Susano e Costrignano nei
pressi di Montefiorino, Cervarolo e Civago nel reggiano, Vetta le Croci, Vaglia
e Vicchio attorno a Monte Morello, Vallucciole, 108 donne e bambini, il passo
dei Mandrioli e altre località del Falterona, Mommio in Lunigiana, i posti
citati tra la Val di Chiana e le miniere del Valdarno, e Chiusi, Sinalunga,
Monte San Savino, Badia a Ruoti, il Palazzaccio e Pancole di Arceno, con
eccidio di donne e bambini, Bucine.
Non c’era l’obbligo della decimazione
nell’ordinamento militare tedesco, c’era anzi discrezionalità: la Wehrmacht
lasciava ai comandanti, fino ai capitani, autonomia in fatti di giustizia, lo
stesso le SS. O no, c’era: dieci per uno, o uno per dieci, era la vendetta
prussiana. C’è la vendetta corsa e c’è quella prussiana: uno ogni dieci svevi
volle giustiziato nel 1849 il Principe Mitraglia Guglielmo di Prussia, quando i
seimila difensori di Rastatt si arresero, facendoli poi gettare in fosse comuni
per l’igiene. Pure la pratica dell’Annientamento, l’Olocausto, si può dire
gestita con canoni prussiani. Ma la stessa Prussia ha sancito per prima il
diritto alla Resistenza e alla lotta partigiana, il 13 aprile 1813, contro
Napoleone. Schmitt ne fa il fulcro della Teoria
del partigiano: “Quelle dieci pagine della raccolta prussiana delle leggi
del 1813 sono da annoverare tra le più inusitate di tutte le gazzette ufficiali
del mondo: asce, forconi, falci e lupare vengono espressamente raccomandati nel
paragrafo 43”. Questo diritto Hitler ribadì nel ’44, contro l’Armata Rossa è
vero. Dicono di no ma ogni reggimento e ogni compagnia, perfino il plotone,
quindi ogni tenente, decideva da sé. L’ordine cieco è un’altra favola, non c’è
esercito che sia stato più decentrato. Non per debolezza, per stimolare
l’emulazione – si schieravano in venti, un plotone, per fucilare tre o quattro
civili inermi ostaggi di rappresaglie. La Göring, specialista di stragi, ebbe
un letale chiama e rispondi con le bande partigiane dell’aretino e del Mugello.
A Cornia, frazione di Civitella, dove la banda
Renzino aveva la base, furono fucilati donne e bambini. La colpa, dirà al
processo il comandante Succhielli, fu della popolazione, che non aveva
denunciato il quarto soldato tedesco all’osteria, consentendogli di fare la
spia. I civitellini accusarono i partigiani di viltà, per non averli protetti
il giorno della strage. Gli uomini di Succhielli, sostennero, volevano uccidere
i tedeschi e non disarmarli, e si disinteressarono della rappresaglia per
salvarsi personalmente. Anche a Crespino sul Lamone, sebbene non molti siano rimasti
a ricordare i fatti, l’opinione vuole colpevoli i partigiani. A Castelnuovo dei
Sabbioni l’opportunità politica ha invece avuto la meglio sulla prima reazione
violenta contro i partigiani, quella parte dell’aretino è ora in pace. Ma
perché tanti morti qui da noi, si diceva, e nessuno nel senese, che è oltre la
strada? Perché lì non c’erano partigiani occasionali. A Castelnuovo e Meleto si
trovarono capri espiatori nei locali repubblichini, due ometti insignificanti e
incolpevoli furono linciati a guerra finita.
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