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Gertrude Stein fu hitleriana, anzi no
Gertrude Stein è periodicamente accusata di simpatie fasciste (Mussolini,
Vichy) se non naziste. Da ultimo dalla storica Barbara Will, “Unlikely Collaboration:
Gertrude Stein, Bernard Faÿ and the Vichy Dilemma”. Dove documenta che Stein tradusse in inglese
32 discorsi del maresciallo Pétain, il capo della repubblica collaborazionista
di Vichy. Will avrebbe trovato in archivio i manoscritti delle traduzioni, di
mano di G. Stein. Compresi quelli “che annunciavano la decisione di escludere
ebrei e altri ‘elementi stranieri’ da posizioni di potere nella sfera pubblica”.
Inoltre, Stein avrebbe presentato Pétain come il George Washington della
Francia.
La questione è controversa. Il sospetto di collaborazionismo fu avanzato
alla fine della guerra e subito lasciato cadere. G. Stein e la sua compagna, Alice
Toklas, benché ebree e americane, scelsero nel 1940 di restare nella Francia occupata
dalla Germania, sfollando da Parigi nell’area di Sud-Est della repubblica di
Vichy, vicino alla Savoia, e alla zona occupata dall’Italia. Oltre questa
scelta, ha fatto dubitare delle inclinazioni politiche di G.Stein il fatto che,
benché ebrea, non sia mai stata non solo perseguitata ma in nessun modo
incomodata, neanche quando, a fine 1942, Vichy divenne di fatto anch’essa zona
d’occupazione tedesca. Che non abbia sofferto di nessuna privazione, alimentare,
di mobilità, durante i quattro anni dell’occupazione. Che la sua collezione d’arte,
importante e ricca, sia rimasta a Parigi ben protetta dall’occupate tedesco –
senza furti né manomissioni.
Charles Bernstein ha argomentazioni contro ognuno di questi sospetti.
Poeta per molti versi innovativo negli anni 1970, Bernstein spiegava un anno fa
in un’intervista con “Il Manifesto” di essersi formato sulla morfologia del
linguaggio parlato introdotta e sperimentata da Gertrude Stein. Alla protezione
della sua memoria politica ha dedicato un sito. In molti interventi, Bernstein
contesta uno per uno i sospetti avanzati su G.Stein, e ne mette in rilievo
invece gli interventi anti-Hitler. La protezione di cui godette nel regime di Vichy
mette in relazione col rapporto di amicizia da Stein intrattenuto con Bernard
Faÿ, uno storico del Collège de France che fu collaborazionista, esponendosi
personalmente nella caccia ai massoni – al “complotto ebraico-massonico” - anche lui omosessuale. Faÿ, condannato
ai lavori forzati dopo la guerra, si rifugiò in Svizzera, continuando a insegnare
in istituzioni religiose (sarà uno dei “lefebvriani” nel 1969), e nelle memorie
si dirà grato a G.Stein, che nel processo per collaborazionismo scrisse al
tribunale in suo favore, spiegando di averla protetta presso il regime negli anni della repubblica di Vichy, anche per le occorrenze materiali.
In proprio la scrittrice, nel memoriale “Guerre che ho visto”, scritto nel
1943-44 e pubblicato all’inizio del 945, critica a ogni pagina i soldati
tedeschi (apprezza gli italiani), e la leva del lavoro obbligatorio in
Germania. La storia della seconda guerra mondiale è ancora da scrivere.
Charles Bernstein, Gertrude Stein’s
war years: setting the record straight, free online
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