La guerra la Germania l’ha persa a Roma
Impressioni di guerre di cui emerge qualche ricordo personale, a partire da
quella ispano-americana di fine Ottocento, ma soprattutto della seconda guerra
mondiale, vissuta, da americana, ebrea, tranquillamente nella Francia occupata,
sfollata con Alice Toklas prima a Bilignin poi a Culoz, vicino la frontiera
svizzera, nella Francia di Vichy, del governo messo su dai tedeschi. Di questa
guerra, della sua seconda parte, una sorta di diario: Stein comincia a scrivere,
in forma diaristica, nel giugno del 1943, e termina l’1 settembre 1944, quando gli americani arrivano a Culoz – quando Toklas
inizia la ricopiatura in bella grafia, per la pubblicazione ai primi del 1945.
Ma europea Stein si dice dall’inizio, essendo finita in Germania, da uno zio, ad
appena otto mesi di vita – e poi, grandicella, a Vienna.
Un libro, apparentemente, di divagazioni. In tempi seri, di occorrenze
serie. “Ora nel settembre 1943 comincio ad amare di nuovo i treni, per trent’anni
non sono mai salita su un treno…”, e dopo una pagina e mezza di treni, “ora nel
settembre 1943 fanno saltare i treni quando penetrano nelle gallerie”. Lo stile
è questo, snobistico, eppure non divagante, anzi sempre in tema: l’occupazione,
la collaborazione, la Resistenza, le rappresaglie, i bombardamenti, gli allarmi,
il cibo da reperire - ma Stein e Toklas avevano le galline….
Una conversazione con se stessa, un flusso di coscienza vario, senza
logica, se non dei tempi e dei luoghi, e della fluidità narrativa. Un filo
conduttore prova a darcelo, ma è una profezia. Di Santa Odilia (Ottilia di
Hohenburg), che nel VII secolo predisse la fine della Germania. Dopo una
battaglia alla Montagna Sacra, che Gertrude e le sue amiche avevano individuato
in Mosca, per una serie di tradizioni, ma ora lei, dopo l’8 settembre, propende
sia Roma: perché a Roma già si combattono i tedeschi – Roma, e poi Firenze, hanno
speciale valutazione (anche precisa storicamente, come in nessun altro libro di
storia, non italiano, sulla fine della guerra, sul “principio della fine”, che
è il filo rosso di questa lunga memoria).
Più precisamente, cioè diffusamente, “autobiografia, diario, romanzo”,
come lo dice Barbara Lanati nell’introduzione. Secondo “la lezione della
migliore avanguardia”, misurarsi con “tutti i sentieri\generi che la
letteratura aveva a disposizione incrociandone … le «direzioni»”. Dove “il narratore
è esterno e nello stesso tempo interno alla storia”. Ma, di più degli altri
scrittori di guerra, fa “parlare la guerra”,
come nota Lanati, fa sì che “la guerra si racconti”. Parlando tanto di sé, alla
Zavattini, ma anche per dire del mondo che la attornia: come scrive Lanati, “delle
sue giornate fa scritture, delle sue conversazioni e riflessioni ad alta voce
fa autobiografia e biografia, non solo di sé medesima ma di un intero villaggio”.
Riflettendo variamente o fantasmagorizzando ma di cose che vede, persone che
incontra, anche solo il cane amato con cui si fa compagnia, Basket e poi Basket
Due.
Qui, in particolare, curiosamente riflette la public opinion, di
chi capita, la vicina di casa, le aiuto domestiche, il figlio del lattaio, il
contadino che incrocia nelle lunghe sfacchinate, anche di venti km., zaino in
spalla, alla ricerca di cibo - invece dei suoi soliti interlocutori, letterati
e artisti, da snob irredimibile. I “ragazzi francesi di venti e ventun anni”
che vanno “in Germania, come deportati” si assomigliano nel ricordo ai “ragazzi
del Middle West che partivano per le Filippine” nella guerra ispano-americana.
Perché tutte le guerre sono uguali – questa, curiosamente, si differenzia non
per le persecuzioni tedesche, di questo non c’è traccia, se non per il reclutamento
dei giovani per il lavoro obbligatorio in Germania, ma per la “resa incondizionata”,
la novità totale del diritto bellico, americana.
In effetti si legge come se si fosse in guerra, seppure marginalmente,
dal borgo remoto, seppure sulla line di Modane, per l’Italia – c’è molta Italia
in questo vagabondare. La percezione dell’occupante tedesco invece dell’italiano
dopo l’8 settembre è immediata, una delle prime impressioni: i giovani “se ne
sono andati o se ne vanno. Alcuni riparano sulle montagne, altri cospirano, il
figlio del nostro dentista, un ragazzo di diciotto anni, è stato preso recentemente
perché li aiutava e forse sarà fucilato”. Tutto così, incidentalmente, di cose
viste e udite. Come sbadatamente, e invece no – la scrittura che si vuole
sciatta è sorvegliata. “E ora nel giugno 1943 è una gran prova vivere, accadono
tante cose tristi, tanta gente è in prigione, tanti scappano”. Subentrano gli italiani,
fino all’8 settembre, che sembra che non ci siano. Poi i tedeschi, subito
insidiati dai “maquis”, dai giovani sulle montagne – i maquis nati come
resistenza al lavoro obbligatorio in Germania, alla corvèe imposta dai
tedeschi senza riguardo per il regime fantoccio di Vichy, che loro stessi
avevano creato. Curiosa la precisione con cui delinea la guerra civile che si
avvia, sotto occupazione straniera, e come anticipando gli storici “revisionisti”:
“Chiunque poteva essere un amico o un nemico”. Breve la cronaca della ritirata
tedesca, ma già céliniana - del Céline della trilogia postbellica della guerra:
senza benzina, su carri trascinati da muli, o su bici da donna, rubano,
bruciano, uccidono, sempre professandosi buoni, amici, fratelli, qualche volta
disertando, per calcolo, l’aviazione tedesca infine chiamando in azione, nella
ritirata, a bombardare i villaggi che lasciano.
Solo un inciso, e perplesso, ma denso, sulla “persecuzione del popolo
eletto”, che attribuisce alla “pubblicità”: “C’è sempre stata una gran passione
per la pubblicità nel mondo la più grande passione per la pubblicità, e quelli
che vi riescono meglio, che hanno l’istinto più sicuro in materia di pubblicità
rivelano una grande tendenza a essere perseguitati, e si capisce, questa io
penso che sia la vera base della persecuzione del popolo eletto e ora più che
mai perché dato che la pubblicità è sempre più un processo cosciente coloro che
hanno l’istinto più sicuro per la pubblicità sono quelli di cui gli altri che
vorrebbero essere i padroni della pubblicità sono gelosi, io almeno la penso
così e forse non mi sbaglio”. Con una chiusa condivisibile, acuta: “È molto interessante
ma la fine del diciannovesimo secolo e il ventesimo secolo compresero al
bellezza della pubblicità in se stessa come fine a se stessa e questo è molto
interessante”.
Molte osservazioni infine, perplesse, sui liberatori americani: sono diversi
da quelli della prima guerra, che Stein aveva frequentato, ora molto sicuri di
sé, e la cosa non le è chiara – non le piace. Ma più di tutto, per molte pagine, osserva i
tedeschi. Di cui da ultimo dirà: “I tedeschi non sono coraggiosi”. Dopo averli registrati
per vari aneddoti confusionari, sentimentali, vendicativi, un po’ ladri anche,
e sempre paurosi, sempre armati, sempre in gruppo – uno dentro il negozio a
comprare il pane e cinque di guardia all’ingresso. I francesi sono instabili – “amano
la varietà, è questo che li rende simpatici a viverci insieme”.
Con la storia di Paul Genin, “un giovanotto”, “un setaiolo di Lione appassionato
di letteratura”, che la tira fuori dai guai giudiziari a occupazione avvenuta, non
potendosi incassare gli assegni in dollari, tratti su banche americane, e le
presta lui il necessario, senza ricevuta. Una storia che le verrà utile dopo la
guerra, quando non mancherà di venire sospettata in America di “pétainismo”, se
non di collaborazionismo con i tedeschi, per essere rimasta indenne dalle
persecuzioni, lei e la sua collezione, molto 1ricca, di arte moderna. E con gli
italiani qua e là, sempre simpatici: “Partiti i tedeschi abbiano avuto gli italiani
in casa: erano abbastanza socievoli e pazzerelloni e non lasciavano mai in pace
la servetta” – dopo l’8 settembre fanno visite di congedo di casa in casa. I
tedeschi, invece, ancora loro, temono le barzellette, per questo l’occupazione
è difficile: i parigini amano “raccontare di così buffe”, e i tedeschi, non capendo,
temono - “è proprio questo che preoccupa tanto i tedeschi, le barzellette sono qualcosa
che li coglie sempre di sorpresa, sempre”. E osservazioni sparse: “in guerra si
mangia molto miele”, l’Ottocento mancava di logica, la produttività dei contadini
francesi è enorme, i re Giorgio che portano sfiga all’Inghilterra, Nathalie Barney
in età, non più “l’amazzone”, o “l’incantatrice”, di rue Jacob, in sogno a
Firenze, e gli Stati Uniti d’Europa, “impossibili”, dice il fornaio, che sa
anche il perché (“i cibi e le bevande di ogni paese d’Europa sono troppo
profondamente diversi”). La cittadinanza no, non cambia le cose, lo ius soli
sì, in un paese bisogna esserci nati. “Ogni due o tre giorni leggo un lavoro di
Shakespeare”, le fanno sentire il flusso del tempo - specie le guerre, “sembrano
oggi”.
Un racconto corposo, benché contenuto dalla grafica minuta. Di aneddoti,
cose viste e intese, considerazioni, ricordi, sempre intrecciati variamente. La
prefazione di Barbara Lanati è probabilmente il miglior inquadramento,
sintetico e centrato, della scrittrice “anomala” Stein, maestra di molta scrittura
americana tra le due guerre, specie di chi risciacquava la scrittura in
Francia, della “festa mobile” di Hemingway, con Sherwood Anderson, Fitzgerald naturalmente,
perfino Pound, e altri minori.
Gertrude Stein, Guerre che ho
visto, Oscar, pp. 260, pp.vv.
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