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Democrazia – È espansiva, fino allo spreco, e per questo trionfa. L’ordine è
repressivo-recessivo, consuma meno.
La cosa, volendolo, si sa da tempo. Erodoto sa che la
democrazia è l’opera di un’oligarchia, insomma una banda, che “prese il popolo
nella sua clientela, o meglio eterìa”.
Ecco perché ci vuole la rivoluzione, per fare la democrazia democratica. La
libertà. Che è borghese: è ordinata in un progetto. E progressista, secondo una
logica cioè costruttiva, di accumulo.
La democrazia di massa è cosa totalitaria, roba da
megafono agli incroci, con adunate, labari e slogan, l’opposto della civiltà,
questo lo sapevano pure in Germania, alla scuola di Francoforte.
Freud – Un pasticcione? Un cattivone? “La padronanza degli istinti
diventa opera propria dell’individuo: autonomia”. Dlin, dlin, dlin! (campanello
d’allarme). “La libertà è una forma di dominio”. Amen! Esegeta della
rivoluzione, Marcuse ne ha detta con Freud la messa, e tutti mandato a casa.
Nodo
della teoria freudiana degli istinti è il dominio, ecco perché le rivoluzioni
s’incartano. Poco male, si penserebbe, l’istinto va educato. E invece no: da
sempre l’individuo riproduce dal suo seno il dominio, e questa partenogenesi
alimenta la conservazione. È quanto Freud insegna. Peggio: “La libertà
individuale non è un beneficio per la civiltà”. E “più la civiltà progredisce,
più si restringe la libertà”. D’un colpo solo il Doktor si eleva, austriaco e
ebreo, all’empireo dei Grandi Spiriti tedeschi che si posero reazionari a
maestri dell’umanità corrotta - Furio Jesi lo spiega in “Germania segreta”. E non è tutto: l’infelicità sta nella libertà, il
dominio nell’autonomia, la reazione nel progresso. Bisogna dunque stare in
carcere per essere liberi, in servitù per essere padroni, sugli alberi per fare
la rivoluzione.
“Il
principio non repressivo del progresso è, in un senso decisivo, conservatore”:
Marcuse ha fatto l’analisi alla rivoluzione e ha scoperto che non c’è niente da
fare, “gli istinti sono conservatori”. Lo schema è semplice, articolato in due
fasi che tornano costanti. La rivoluzione vince. Allora determinate forze la
spingono all’estremo. Con un segnale forte: l’occasione di finirla con la
storia – economia, progresso – e l’attesa del nuovo mondo. Freud insegna alla
rivoluzione il perfetto harakiri.
Si
dice la fine della storia pensiero utopico, ma è una paraculata. A questo punto
infatti il dominio è interiorizzato, restaurato, estremizzato. E la rivoluzione
è sradicata. Si può scusare Freud, tutto è in lui repressione, per via della
dittatura del padre e del suo assassinio, che ne perpetua il dominio. Uomo
coraggioso, perfino temerario, con “Mosè
e il monoteismo” sradica perfino la purezza della razza, e amabile, ma
casinista. Scopre l’inconscio che era stato già scoperto da Janet. E non sa che
le parole non sono inoffensive, dopo avere inventato le parole ponte e le
decomposizioni significative – dal francese déconner,
sbarellare? Marcuse ne conosce il trucco: “Della natura dell’eros Freud mise
sempre in rilievo il carattere amorale e asociale, anzi antimorale e
antisociale”.
Il
Doktor è pure autoritario: “Il programma che il principio del piacere impone,
di essere cioè felici, non può essere attuato”. Meglio allora, se Platone è
impossibile, la libertà come costrizione morale di Kant, o del confessore: il controllo
dell’istinto quale condizione di libertà. È idealista ma ben detto. La
disciplina e la rinuncia aprono spazi alla libertà, nella cella del monaco e
fuori, danno più piacere che non la merda di Freud. Il quale si giustifica con
l’aver visto che “il progresso della civiltà ha portato il senso di colpa a
gradi d’intensità a malapena tollerabili”. Non aveva gli occhiali? Ma è lecito
liberare l’istinto, è un dovere e non un peccato.
Libertà
– Alla Scuola di Francoforte Marcuse
fece la scoperta che “la civiltà deriva dal piacere”. Che è in Platone, nelle “Leggi” totalitarie: “In guerra non
c’è divertimento né nulla da imparare”, c’è da “respingere i nemici” e
“imparare a vivere divertendosi, con giochi, sacrifici agli dei, canti, danze”.
Ma a Freud non piace.
Imparare a divertirsi, questa è la libertà, che non è
dominio. Ci fu invece una fioritura in Francia di manuali sull’onanismo, prima
dell’‘89 e del ‘48. Non si è cantato per caso nel ‘68.
Neofascismo – Il
saluto romano, gli eia eia alalà, vincere e vinceremo, le celebrazioni dei
propri “caduti”, in camicia nera e con i gagliardetti patacca, è di più: è
anche l’esito-rimasuglio di un vecchio neofascismo, vecchio ormai di
ottant’anni, che vive nel cultp dei morti: si dice nostalgico, ma di poche,
limitate, nostalgie, la camicia nera, il casino, il militarismo per burla.
Nei
fatti, in Italia, la coreografia fascista non è neo, è proprio fascismo: è prerogativa
di ceti popolari che si direbbero piccolo borghesi, ma sono generalmente
commercianti, artigiani e operai, non impiegatizi. Esemplificati dalle
tifoserie sportive. Lunedì gruppi di tifosi della Lazio si sono recati a Monaco
di Baviera, al costo di alcune centinaia di euro, per cantare nella “birreria
di Hitler”, l’Hofbraühaus, col saluto hitleriano e per concludere l’urlo fascista
“me ne frego” - cori insistititi, da ubriachi, che hanno obbligato la polizia a
interenire. Sabato i tifosi della Rma si sono esibiti in treno con un inno della
sqaudra”, “Nell’As Roma non ci sono ebrei”. Presentato e commentato poi come “una
goliardata, un momento di svago”. Per il derby, laziali e romanisti s insultato
reciprocamente come “ebrei”.
Cori,
saluti e atteggiamenti comuni a molte tifoserie “in trasferta” – fuori casa,
domesticità, mogli, genitori: il fascismo è un modo per passare il tempo della
festa. Per ricaricarsi anche, prima del match per timorte della sconfitta,
dopo per prolungare la vittoria. Come se il fascismo fosse un elisir del
popolo.
E la
violenza? Fascismo è violenza, senza più
Ma con
una funzione politica attiva: è un neofascismo – la nostalgia – che sterilizza
l’antifascismo. Lo reduce, comprime, condensa, in un passato anch’esso “inesistente”,
non più attivo – se non al modo dei tifosi “in trasferta”. E in nessun modo
cercato, nemmeno nelle forme della nostalgia (un comunista non celebrerà mai i
fratelli Rosselli – non celebra oggi nemmeno Matteotti, che il vezzo dele
ricorrenze e gli storici ripropongono). In questo senso ha funzione politica
attiva.
Storia-
“Una caratteristica piacevole della storia è che essa si ripete” – Getrude
Stein, “Le guerre che ho visto”, 112.
È anche bello non avere
storia – il “ducunt fata volentem, nolentem trahunt”, di
Cleante-Epitteto-Seneca: chi vuole compie il suo destino, chi no lo stesso, va
al traino. È bello essere infanti, o anche non essere nati. Ma c’è confusione.
“Dove va il passato quando diventa passato, e dov’è il passato?” è uno dei
problemi di Wittgenstein. Mentre è qui, lo sanno tutti che il passato non
passa, che siamo accumuli, concrezioni, sorite più o meno coscienti, noi e il
tempo, che si pavoneggia tra passato, presente e futuro – benché presenza poco
filosofica, questo essere presente, che si risolve nel napoletano gliommero.
È vero che la memoria è ordine. I pazzi si
coordinano, ragionano cioè, ma non ricordano, e quindi eccedono, o ripetitivi o
vaghi. Ed è regola proustiana che solo il ricordo involontario dia all’artista
materia per l’opera – allo storico per la memoria. Per il noto precetto di
Bergson: “Ciò che abbiamo sentito, pensato, voluto fin dalla prima infanzia è
sempre là, chino sul presente che va ad aggiungervisi, e preme contro la porta
della coscienza che vorrebbe lasciarlo fuori”. E perché la memoria sa scegliere
meglio, è l’autore più rifinito. Ma resta un passato di mistero.
La storia a volte è impossibile. “La
storia svisa l’uomo: lo coglie nella dispersione, nella estrinsicità, non
coglie ciò che lui è, il suo non essere ancora”, il filosofo Banfi avverte.
Bisogna dunque fare a meno della storia, o dell’uomo? Senza contare che ci
aspetta un Hitler II, se quello vero non c’è stato – se la consolazione è
per Gertrude Stein che la storia si ripete.
È
Clio, cioè è quella che chiude, sorride Savinio. Da klion,
chiudere: chiude il passato, fissa la storia. La storia è un mattone messo
sopra. O così piacerebbe agli storici.
Tempo - Il problema è stabilire cos’è il
presente-per-il-futuro. Si insiste a valutare il tempo in termini di progresso,
e viceversa. Per cui il tempo in città, minimizzato rispetto al tempo in villa,
si dice più intenso e produttivo perché il progresso è urbano e non agreste. Il
tempo si vuole in crescita: una curva che sale all’infinito, il progresso nel
quale il presente si an-nulla. Il passato se ne sta lì accucciato e il presente
è incompiuto. In questa corsa in avanti l’attesa, l’adempimento, la soddisfazione,
o la pausa e la pace, diventano rinunce religiose, superstizione, animalismo.
Ma si ve-de che è un trucco, sia per il terzomondista, che crescita e sviluppo
affliggono, che per ogni altro.
Verità - La
Verità scoperta dal Tempo, nel Seicento, è vana rincorsa – se non tema
pittorico che consente d’accostare
committenti vegliardi a rosse in carne.
zeulig@antiit.eu
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