martedì 9 aprile 2024

Secondi pensieri - 532

zeulig


Democrazia – È espansiva, fino allo spreco, e per questo trionfa. L’ordine è repressivo-recessivo, consuma meno.
 
La cosa, volendolo, si sa da tempo. Erodoto sa che la democrazia è l’opera di un’oligarchia, insomma una banda, che “prese il popolo nella sua clientela, o meglio eterìa”. Ecco perché ci vuole la rivoluzione, per fare la democrazia democratica. La libertà. Che è borghese: è ordinata in un progetto. E progressista, secondo una logica cioè costruttiva, di accumulo.
La democrazia di massa è cosa totalitaria, roba da megafono agli incroci, con adunate, labari e slogan, l’opposto della civiltà, questo lo sapevano pure in Germania, alla scuola di Francoforte.

Freud – Un pasticcione? Un cattivone? “La padronanza degli istinti diventa opera propria dell’individuo: autonomia”. Dlin, dlin, dlin! (campanello d’allarme). “La libertà è una forma di dominio”. Amen! Esegeta della rivoluzione, Marcuse ne ha detta con Freud la messa, e tutti mandato a casa.
Nodo della teoria freudiana degli istinti è il dominio, ecco perché le rivoluzioni s’incartano. Poco male, si penserebbe, l’istinto va educato. E invece no: da sempre l’individuo riproduce dal suo seno il dominio, e questa partenogenesi alimenta la conservazione. È quanto Freud insegna. Peggio: “La libertà individuale non è un beneficio per la civiltà”. E “più la civiltà progredisce, più si restringe la libertà”. D’un colpo solo il Doktor si eleva, austriaco e ebreo, all’empireo dei Grandi Spiriti tedeschi che si posero reazionari a maestri dell’umanità corrotta - Furio Jesi lo spiega in “Germania segreta”. E non è tutto: l’infelicità sta nella libertà, il dominio nell’autonomia, la reazione nel progresso. Bisogna dunque stare in carcere per essere liberi, in servitù per essere padroni, sugli alberi per fare la rivoluzione.
“Il principio non repressivo del progresso è, in un senso decisivo, conservatore”: Marcuse ha fatto l’analisi alla rivoluzione e ha scoperto che non c’è niente da fare, “gli istinti sono conservatori”. Lo schema è semplice, articolato in due fasi che tornano costanti. La rivoluzione vince. Allora determinate forze la spingono all’estremo. Con un segnale forte: l’occasione di finirla con la storia – economia, progresso – e l’attesa del nuovo mondo. Freud insegna alla rivoluzione il perfetto harakiri.
 
Si dice la fine della storia pensiero utopico, ma è una paraculata. A questo punto infatti il dominio è interiorizzato, restaurato, estremizzato. E la rivoluzione è sradicata. Si può scusare Freud, tutto è in lui repressione, per via della dittatura del padre e del suo assassinio, che ne perpetua il dominio. Uomo coraggioso, perfino temerario, con “Mosè e il monoteismo” sradica perfino la purezza della razza, e amabile, ma casinista. Scopre l’inconscio che era stato già scoperto da Janet. E non sa che le parole non sono inoffensive, dopo avere inventato le parole ponte e le decomposizioni significative – dal francese déconner, sbarellare? Marcuse ne conosce il trucco: “Della natura dell’eros Freud mise sempre in rilievo il carattere amorale e asociale, anzi antimorale e antisociale”.
Il Doktor è pure autoritario: “Il programma che il principio del piacere impone, di essere cioè felici, non può essere attuato”. Meglio allora, se Platone è impossibile, la libertà come costrizione morale di Kant, o del confessore: il controllo dell’istinto quale condizione di libertà. È idealista ma ben detto. La disciplina e la rinuncia aprono spazi alla libertà, nella cella del monaco e fuori, danno più piacere che non la merda di Freud. Il quale si giustifica con l’aver visto che “il progresso della civiltà ha portato il senso di colpa a gradi d’intensità a malapena tollerabili”. Non aveva gli occhiali? Ma è lecito liberare l’istinto, è un dovere e non un peccato.
 
Libertà – Alla Scuola di Francoforte Marcuse fece la scoperta che “la civiltà deriva dal piacere”. Che è in Platone, nelle “Leggi” totalitarie: “In guerra non c’è divertimento né nulla da imparare”, c’è da “respingere i nemici” e “imparare a vivere divertendosi, con giochi, sacrifici agli dei, canti, danze”. Ma a Freud non piace.
Imparare a divertirsi, questa è la libertà, che non è dominio. Ci fu invece una fioritura in Francia di manuali sull’onanismo, prima dell’‘89 e del ‘48. Non si è cantato per caso nel ‘68.


NeofascismoIl saluto romano, gli eia eia alalà, vincere e vinceremo, le celebrazioni dei propri “caduti”, in camicia nera e con i gagliardetti patacca, è di più: è anche l’esito-rimasuglio di un vecchio neofascismo, vecchio ormai di ottant’anni, che vive nel cultp dei morti: si dice nostalgico, ma di poche, limitate, nostalgie, la camicia nera, il casino, il militarismo per burla.
Nei fatti, in Italia, la coreografia fascista non è neo, è proprio fascismo: è prerogativa di ceti popolari che si direbbero piccolo borghesi, ma sono generalmente commercianti, artigiani e operai, non impiegatizi. Esemplificati dalle tifoserie sportive. Lunedì gruppi di tifosi della Lazio si sono recati a Monaco di Baviera, al costo di alcune centinaia di euro, per cantare nella “birreria di Hitler”, l’Hofbraühaus, col saluto hitleriano e per concludere l’urlo fascista “me ne frego” - cori insistititi, da ubriachi, che hanno obbligato la polizia a interenire. Sabato i tifosi della Rma si sono esibiti in treno con un inno della sqaudra”, “Nell’As Roma non ci sono ebrei”. Presentato e commentato poi come “una goliardata, un momento di svago”. Per il derby, laziali e romanisti s insultato reciprocamente come “ebrei”.
Cori, saluti e atteggiamenti comuni a molte tifoserie “in trasferta” – fuori casa, domesticità, mogli, genitori: il fascismo è un modo per passare il tempo della festa. Per ricaricarsi anche, prima del match per timorte della sconfitta, dopo per prolungare la vittoria. Come se il fascismo fosse un elisir del popolo.
E la violenza? Fascismo è violenza, senza più
Ma con una funzione politica attiva: è un neofascismo – la nostalgia – che sterilizza l’antifascismo. Lo reduce, comprime, condensa, in un passato anch’esso “inesistente”, non più attivo – se non al modo dei tifosi “in trasferta”. E in nessun modo cercato, nemmeno nelle forme della nostalgia (un comunista non celebrerà mai i fratelli Rosselli – non celebra oggi nemmeno Matteotti, che il vezzo dele ricorrenze e gli storici ripropongono). In questo senso ha funzione politica attiva.
 
Storia- “Una caratteristica piacevole della storia è che essa si ripete” – Getrude Stein, “Le guerre che ho visto”, 112.
 
È anche bello non avere storia – il “ducunt fata volentem, nolentem trahunt”, di Cleante-Epitteto-Seneca: chi vuole compie il suo destino, chi no lo stesso, va al traino. È bello essere infanti, o anche non essere nati. Ma c’è confusione. “Dove va il passato quando diventa passato, e dov’è il passato?” è uno dei problemi di Wittgenstein. Mentre è qui, lo sanno tutti che il passato non passa, che siamo accumuli, concrezioni, sorite più o meno coscienti, noi e il tempo, che si pavoneggia tra passato, presente e futuro – benché presenza poco filosofica, questo essere presente, che si risolve nel napoletano gliommero.
 
È vero che la memoria è ordine. I pazzi si coordinano, ragionano cioè, ma non ricordano, e quindi eccedono, o ripetitivi o vaghi. Ed è regola proustiana che solo il ricordo involontario dia all’artista materia per l’opera – allo storico per la memoria. Per il noto precetto di Bergson: “Ciò che abbiamo sentito, pensato, voluto fin dalla prima infanzia è sempre là, chino sul presente che va ad aggiungervisi, e preme contro la porta della coscienza che vorrebbe lasciarlo fuori”. E perché la memoria sa scegliere meglio, è l’autore più rifinito. Ma resta un passato di mistero.
 
La storia a volte è impossibile. “La storia svisa l’uomo: lo coglie nella dispersione, nella estrinsicità, non coglie ciò che lui è, il suo non essere ancora”, il filosofo Banfi avverte. Bisogna dunque fare a meno della storia, o dell’uomo? Senza contare che ci aspetta un Hitler II, se quello vero non c’è stato – se la consolazione è per Gertrude Stein che la storia si ripete.
 
È Clio, cioè è quella che chiude, sorride Savinio. Da klion, chiudere: chiude il passato, fissa la storia. La storia è un mattone messo sopra. O così piacerebbe agli storici.
 
Tempo - Il problema è stabilire cos’è il presente-per-il-futuro. Si insiste a valutare il tempo in termini di progresso, e viceversa. Per cui il tempo in città, minimizzato rispetto al tempo in villa, si dice più intenso e produttivo perché il progresso è urbano e non agreste. Il tempo si vuole in crescita: una curva che sale all’infinito, il progresso nel quale il presente si an-nulla. Il passato se ne sta lì accucciato e il presente è incompiuto. In questa corsa in avanti l’attesa, l’adempimento, la soddisfazione, o la pausa e la pace, diventano rinunce religiose, superstizione, animalismo. Ma si ve-de che è un trucco, sia per il terzomondista, che crescita e sviluppo affliggono, che per ogni altro.
 
Verità - La Verità scoperta dal Tempo, nel Seicento, è vana rincorsa – se non tema pittorico che  consente d’accostare committenti vegliardi a rosse in carne.

zeulig@antiit.eu

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