mercoledì 29 maggio 2024

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (561)

Giuseppe Leuzzi
Il generale Mori rinviato a giudizio, per l’ennesima volta, sempre per “i fatti di Palermo”, in questo caso per le stragi a Firenze e Milano nel 1993. Dalla Procura di Firenze, che ha il privilegio di indagare sulle stragi. Dopo trentun’anni. Poiché Mori ha 85 anni qualsiasi giudice può fare a mano di lavorare. Se non, nel frattempo, alla carriera, per un’indagine così importante, su un colpevole illustre: qualcuno del pool è già diventato Procuratore Capo, qualcun altro lo diventerà. E questa è tutta la “giustizia antimafia”, trentun’anni di carriere. Per non molti, ma che carriere - poi dice che Sciascia ci vedeva male.
 
In una cosa il Sud è allineato al Nord, al Centronord: nell’evasione fiscale. Totale e pro capite. Un’elaborazione statistica del “Quotidiano del Sud” sui dati del Tesoro mostra che la stima d’evasione fiscale, 172 miliardi, è così suddivisa: 129 miliardi al Centronord, il 67,2 del totale, per il 66,5 per cento della popolazione, e 63 miliardi al Sud, il 32,8 per cento dell’evasione totale, per il 33,5 per cento della popolazione.
 
Non si dà pace l’ex sindaco di Rende Marcello Manna, di centro-destra, cacciato dal prefetto un anno fa, insieme con il consiglio comunale, per “infiltrazioni mafiose”, e scrive a Mattarella: questi scioglimenti sono discrezionali, cioè arbitrari, quindi incostituzionali, non c’è nessun contraddittorio, nessuna accusa specifica è stata mossa a nessuno. Ha scritto a Mattarella invece di fare causa per incostituzionalità. E forse non sa che gli scioglimenti, come già il soggiorno obbligato, sono un’antimafia di copertura. Però, si è cautelato: la lettera l’ha resa pubblica.
 
La mafia è recente
Mafia è recente, come passepartout mondiale - un export della Sicilia nel trentennio del terrore, 1963-1993, da Ciaculli ai Georgofili. In America, dove i passepartout mondiali si fanno, era mob – la mob siciliana era Cosa Nostra.
I dizionari inglesi e americani non registrano la parola fino agli anni 1960. Quelli spagnoli nemmeno. Il Petit Robert ne data l’introduzione al 1868, come “maffia”, nel senso di audacia, spacconeria, e al 1933 nel senso proprio (ma non dà il riferimento, se a uno o più testi) – per “maffieux” riporta al 1980, per “mafieux” al 1987 (“Libération”).
Nel 1952 si pubblica a New York, da primaria casa editrice, Random House, un libro esplicito, “Mafia”, di Ed (Edward) Reid, un giornalista investigativo, sulla mafia a New York – l’anno dopo che Reid aveva ricevuto il premio Pulitzer (sarà tradotto nel 1956 dall’editore fiorentino Parenti, con prefazione di Calamandrei, e sarà un successo, ma in una serie “Gialli veri. La realtà supera l’immaginazione”: la prima copertina, bianca con indice, saggistica, sarà succeduta da una gialla, n. 2 della collana, quindicinale, e poi da una nera). Ma nel “Padrino”, sia in quello di Puzo (1969) nel romanzo che in quelli di Coppola al cinema, a partire dal 1971, la parola mafia non c’è. Anzi, soprattutto i film, per il carisma di Marlon Brando, danno una strana immagine collegata al brand, di quella che Sciascia aveva detto la vecchia mafia, onorata (nella prima riflessione in tema, 1957, l’anno dopo “Le parrocchie di Regalpetra”, per la rivista di Silone, “Tempo Presente”, un breve saggio ora ripreso in “Pirandello e la Sicilia”, in forma di recensione di Reid, e di “Questa mafia” del maggiore dei Carabinieri Renato Candida, l’ufficiale leccese che gli servirà da modello per il Bellodi del “Giorno della civetta”, indulge ancora alla mafia vecchia, buona, e ha perfino una “mafia di sinistra”, consentendo con l’ufficiale dei Carabinieri, portato dalla divisa all’equidistanza). Mentre imperversavano già da un decennio autobombe, tritolo e kalashnikov, spietati, a tradimento, senza limiti ai morti.
Su questa assenza varie mitologie si sono create. La parola non c’è perché l’Italian American Civil Rights Movement si oppose. Con metodi mafiosi: minacce telefoniche ai dirigenti Paramount, in particolare al produttore Robert Evans, e “avvertimenti” (furti e sabotaggi di materiale costoso fin dai primi sopralluoghi, nel 1972). Niente riprese a Little Italy, e niente “mafia”. Finché Evans non decise di accordarsi col fondatore e presidente dell’Italian American Movement, Joseph Colombo, capo dell’omonima “famiglia” di mafia, una delle tre di New York. Che impose: “Né la parola ‘Mafia’ né ‘Cosa Nostra’ devono comparire”. Non tutti i mafiosi a New York gradirono la benedizione al film, continua la leggenda nera, e pochi mesi dopo Colombo fu punito dalle cosche rivali, Gambino e Costello-Luciano.
Cominciava il mito della mafia. I fatti sono leggermente diversi. Il primo “Padrino” fu girato in 80 giorni, da fine maggio ai primi di agosto 1971. Colombo fu sparato il 28 giugno 1971, al Columbus Circle di Manhattan, davanti a decine di migliaia di persone, da un killer afroamericano, Jerôme Johnson, poco abile (e subito freddato dai figli e la scorta di Colombo), ma non per il film, per conto del concorrente Joe Gallo – Colombo sopravviverà paralizzato per sette anni, fino al 1978, in tempo per sapere dello stratosferico successo della serie, ma senza alcun potere. Evans era il capo della Paramount, il produttore era Al Ruddy, morto di questi giorni, quasi centenario, produttore di molti film di successo - sua la scelta di Marlon Brando.
La serie “Il Padrino” era nata, come si sa, per il regista Peckinpah (che fu poi licenziato per motivi sconosciuti – alcol? cocaina?), quindi più azione e botti che parole, pause, sguardi e psicologia. La Paramount arrivò a Coppola dopo contatti infruttuosi con Sergio Leone, Kazan e Arthur Penn. Coppola era già famoso, ma per film a basso costo, e di più come sceneggiatore, premio Oscar non ancora trentenne per questa attività, con “Patton, generale d’acciaio”. “Il Padrino”, senza “mafia”, sarà opera sua in tutti i sensi.
 
Un incidente in Calabria
Tra le uscite di Rogliano e Altilia Grimaldi, sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, cica 20 km. a Sud di Csenza, si è formata nella lunga discesa in direzione di Reggio Calabria una fila. Per un incidente. Pare un tamponamento. Sono le 14, fa caldo, ma siamo su un cavalcavia, e con i finestrini aperti c’è aria. Tutti sembrano aspettare pazienti. Si passa il tempo sui cellulari, qualcuno telefona, i più scorriamo i social.
Alle 15 passa, senza clamore, un’auto della Polizia. Dopo qualche minuto la segue una Panda colorata dell’Anas, con due in tuta arancione. Qualcuno scende dalla macchina, si conversa, si ipotizza: libereranno il passaggio, prese le misure e fatte le fotografie del tamponamento.
Alle 16 passa una grossa Bmw, tipo Suv, vetri fumé. Avanza con prudenza, ma con decisione. Che sia il magistrato? La voce corre. Ma allora, si ipotizza, ci saranno feriti. Ecco perché tutto resta bloccato. Non ci sono dubbi. Anche perché in rete va un sito di Cosenza che parla di un incidente mortale tra Rogliano e Altilia, una donna sarebbe morte – dice anche l’età, 34 anni.
Subentra il silenzio. Nel senso che non si fa più small talk per ingannare l’attesa. Qualcuno fa telefonate lunghe. Qualcuno mette mano alle carte, per portare avanti il lavoro. Ma d’un tratto, verso le 17, la colonna si muove. In prima, procedendo e fermandosi, specie i primi minuti, prima che si avvii la pratica dell’alternanza nelle precedenze, per fare delle due file una, si avanza per un paio di chilometri. Finché uno dei due uomini arancione dell’Anas non invita vigorosamente a passare di carreggiata e invertire la marcia: hanno ristretto il traffico sulla carreggiata in salita, rado, a una sola corsia, e in quella interna invitano a tornare indietro.
Ripartiamo titubanti, non conoscendo i luoghi. I più però sfrecciano, sanno cosa fare, saranno del luogo, conviene accodarsi. Usciamo a Rogliano. Non siamo in molti, all’uscita si forma una coda, ma la fila è corta. E un altro uomo in arancione, affannato, invita a muoversi. S e non che non ci sono indicazioni: dove andare? Chiedere è inutile: l’uomo affannato in arancione urla di prendere una qualsiasi direzione pur di liberare l’uscita dall’autostrada, che comincia a intasarsi.
Si prende una direzione qualsiasi. Finché, finita la coda, non ci si può fermare, e chiedere la direzione. “È semplice”, dice un ragazzo, “fino a Grimaldi, poi da Grimaldi ad Altilia, e lì riprendete l’autostrada”. “In questa direzione?” “Su questa strada”. È fatta, finalmente un punto fermo, dopo tre ore o quattro d’incertezza.
Sono passate quattro ore, ma pazienza. Se c’è stato un incidente mortale – uno inconsciamente si congratula con se stesso. È campagna piena, molto verde, e la strada è ben tenuta. Solo che Grimaldi non si vede. Curve e controcurve, ma niente cartelli e niente Grimaldi. E se la direzione fosse sbagliata? L’incertezza subentra di nuovo. Anche la campagna, è molto verde, ma non è coltivata, non ci sono orti, non si olivi né alberi da frutta. E non c’è a chi chiedere. Tornare indietro? Andare avanti? Tornare non è opportuno. L’ansia cresce. Ma poi qualche macchina s’incontra. Una è ferma nella nostra direzione. Accostiamo. Una ragazza è appoggiata alla macchina e digita. Solleva appena il capo, l’occhio witty, e dice subito, non ancora interpellata: “Avanti ancora un po’, c’è il bivio per Altilia”. E così è. È che i chilometri dall’autostrada a Grimaldi sono una quindicina, bastava dirlo o segnalarlo. Un’altra decina ci saranno per Altilia, ma a cuor leggero, la fiducia essendo stata ristabilita.
Si può apprezzare la coolness. In fondo, quattro o cinquemila macchine in fila non sono un disastro. Ma quando c’è – ci sarà - il terremoto? In fondo, è stato semplice. Ma non lo è: in una vera emergenza, come sarebbe successo, come ci si sarebbe organizzati?
Il giorno dopo il giornale locale non fa cenno alla lunga coda. Digitando furiosamente, si trova una cronaca locale con la foto dell’incidente: un tir ha preso fuoco, l’autostrada è rimasta chiusa per cinque ore, per i rilievi d’uso nelle assicurazioni. Di quale mondo?
 
Napoli illuminata, Pavia reazionaria
Stefania de Bonis fa sul supplemento “Mimì” del “Quotidiano del Sud” la storia vera, che non si conosceva, di Anna Kuliscioff. In un saggio dal titolo “Laureate, che fatica essere donne”. Sulle difficoltà di una donna, fino al primo Novecento, a dirsi dottore, avvocato, ingegnere e a esercitare la professione. “Ne seppe qualcosa Anna Kuliscioff, nata in Crimea, fuggita in Svizzera per studiare filosofia e poi arrivata in Italia, dove fu arrestata con l’accusa di cospirare con gli anarchici. Nel gennaio 1984 giunse a Napoli, accolta cordialmente dal professor Arnaldo Cantani, per dedicarsi, nella clinica ostetrico-ginecologica, allo studio delle malattie femminili.
“Per approfondire le ricerche sulle «febbri puerperali», necessarie alla sua tesi, si recò nel laboratorio di Golgi a Pavia, chiedendo il trasferimento nell’ateneo cittadino. Il rettore Alfonso Corradi e altri docenti, irritati dalla sua richiesta (preoccupati dal possibile contagio politico della platea studentesca) si opposero. Benché la prefettura avesse assicurato che la studentessa non appariva più «pericolosa» e aveva promesso di «vivere senz’altro scopo che quello di completare gli studi».
“Corradi fu irremovibile. La giovane laureanda fu difesa soltanto da alcuni universitari. In particolare Achille Monti, che scrisse sulla «Lombardia» un articolo contro il rettore, «uomo dai cento raggiri», e gli altri studenti «giovani inetti».
“Risultato dell’articolo fu un duello fra Monti e il giovane Camillo Broglio, offeso e contrario all’arrivo della laureanda. Qualche graffio, la sospensione di Monti dal collegio e il mesto ritorno a Napoli della Kulisciofff. Che, dopo la laurea a Napoli, si dedicò a battaglie politiche e sociali al fianco di Filippo Turati, suo compagno di vita, e fondò il quindicinale «La Difesa delle Lavoratrici»”.
 
Cronache della differenza: Sicilia
Si ricordano a Messina, ancora negli anni 1950, le banchine del porto d’inverno occupate da botti. Di limoni, si diceva. Di succo? Sembrava troppo. Di bucce? Dell’uno e delle altre. Le bucce per le marmellate Silver Shred di Robertson, che sono sempre buone, dopo un secolo e mezzo. Il succo per lo scorbuto. Contro lo scorbuto, ovviamente: s’imbarca a barili su ogni nave in partenza, ancora oggi, dopo la scoperta nel 1747 del medico navale James Lind.
 
E se la Sicilia fosse stata inglese, come Malta per esempio? Improponibile. Che l’Inghilterra ambisse alla Sicilia, l’abbia dotata perfino di una costituzione, per impadronirsi del limone, prima del marsala, e dei pistacchi di Bronte, è plausibile. Ma le costituzioni ai siciliani non dicono nulla.
 
Scrivendo della sua Sardegna nel 1951, sul “Ponte” (“L’avvenire della Sardegna”), Emilio Lussu parte con questa affermazione, a proposito della diffidenza e dell’isolamento tra sardi: “È il fatto che la regione è un’isola – la Sicilia non lo è affatto”.
 
Pur avendo avviato il “volgare” (l’italiano) con Federico II e la sua corte, “la Sicilia rimarrà isolata dall’Italia dopo la pace di Caltabellotta (1302), che sancirà un autonomo regno di Trinacria” – Stefano Lanuzza,”Storia della lingua italiana”, p. 27. Si ritorna al latino, e al dialetto.
“Dopo la caduta della Sicilia e del Meridione sotto il dominio angioino, il primato del volgare comincia a passare alla Toscana” - Lanuzza, ib.
 
Emily Lowe, intraprendente gentildonna britannica, saluta l’isola nel 1859, sbarcandovi, come “terra amata da tutti gli dei”. E alla partenza, al termine del suo tour con la mamma, come quella “che possiede tutto e non gode di nulla” – “Unprotected Females in Sicily, Calabria and on the Top Of Mount Aetna (1859). 
 
L’editrice Sellerio ha varie antologie di racconti, soprattutto di “gialli”, dei suoi autori. I siciliani sono tutti sicilianisti, sfegatati – anche Piazzese, che pure aborre i luoghi comuni. Malvaldi non è così buono con i suoi vecchietti di Marina di Pisa – “BarLume”. Recami, fiorentino, è perfino antifiorentino (sporcizia, “un genera le difetto di creanza”, l’“Arno d’argento” è una pozza, puteolente…). Perfino Giménez-Bartlett ha da ridire su Barcellona, se non altro per i troppi turisti – ma questa scrittrice di Barcellona non è catalana, è castigliana… I siciliani invece no: mari, monti, cucina, arabi, donne, è tutto un tripudio. Alla Sicilia, come a Milano, non difetta l’autocompiacimento. Ma non fruttifica.
 
Oppure sì? L’isola è decima per reddito, complessivo e pro capite, tra le regioni italiane. Ma è la quinta per ammontare totale di depositi bancari - ne ha più dell’Emilia-Romagna (4,8 milioni di abitanti contro 4,5, ma 17 mila euro di reddito pro capite, contro 35 mila, più del doppio), e del Piemonte (4,2 milioni di abitanti, ma 30 mila euro di reddito pro capite).

leuzzi@antiit.eu

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