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Bruno, Vico e la complessità
“Bruno sa che all’uomo è concesso soltanto di afferrare e di vivere «l’ombra
delle idee», e Vico conclude la sua opera, alla vigilia dell’Illuminismo, con l’esito
per lui già visibile della «barbarie della riflessione» che stava invadendo il
mondo” – “quel razionalismo calcolante e matematizzante, privo di interna
storicità, da cui, secondo il Cartesio letto da Vico, era nata finalmente la ragione
moderna”. Tenendo conto che “l’epoca di Bruno anticipava di poco quella di
Galilei, dell’immagine dell’universo scritta in caratteri matematici, un nuovo
modo di conoscere la natura”. Il Moderno si apre su più vie. Un passo in più,
in avanti e non indietro, e questa “filosofia meridionale” si apre – apre la
via, comunque si collega – alla riflessione sull’essere che da quasi un secolo ormai
tormenta il pensiero.
Tirando le fila, a 93 anni, di
una lunga pratica riflessiva, Biagio de Giovanni parte da una constatazione:
la filosofia è meridionale – la riflessione intitola “Giordano Bruno
Giambattista Vico e la filosofia meridionale”, ma la congiunzione è di fatto
una copula: il titolo è un’affermazione, la filosofia è meridionale. In antico
e nella modernità. “La filosofia occidentale nasce … in Magna
Grecia, e si diffonde ad Atene”. Modernamente, “per citare i sommi, Telesio,
Campanella e Bruno sono disseminati tra Calabria e Campania. E poi viene il
Vico napoletano”. E ancora, parlando dell’Italia unita, “i primi «hegeliani»
d’Italia e d’Europa sono i napoletani, Bertrando Spaventa su tutti, che era di
Bomba, in Abruzzo, ma napoletano nella sua vita filosofica. E infine i
grandissimi del Novecento: Croce e Gentile”. Certo, dice, al Nord non mancano i
filosofi, “da Marsilio Ficino ad Antonio Rosmini”. Ma, se si parla di “filosofi
che hanno contribuito a cambiare la storia e la logica del pensiero umano, il
Mezzogiorno resta un confine abbastanza solido e sicuramente carico di nomi”.
Con qualche problema: “La maggioranza dei filosofi citati, i massimi,
manifestavano tutti qualche diffidenza critica verso l’irrompere della
rivoluzione scientifica, quella iniziata da Galilei”. Compreso Campanella, che
pure, benché in carcere, lo difese, facendo pubblicare una “Apologia di
Galileo”. Fino alla “violenza polemica di Federico Enriques contro Croce che
invitava gli scienziati a calcolare, non a pensare”. O quella anti-cartesiana
di Vico, altrettanto violenta, contro “una razionalizzazione che disprezzava la
storia”, contro il cogito-ergo-sum, “una ragione che dubitava
del mondo, ma non di sé”. Vuole però salvare la metafisica, contro “l’equazione
filosofia-metafisica-arretratezza”: la metafisica è “un tratto decisivo per
fondare l’Europa quale continente della libertà”. Senza contare, “e non è cosa
da poco, che nel Mezzogiorno d’Italia si afferma la statualità, e in Europa non
c’è filosofia che conti senza Stato”.
Da Bruno a Vico è il tema, ma in realtà de Giovanni
si spinge fino a Gentile: “Gentile iniziò la sua battaglia filosofica contro il
positivismo, già in declino, ma ancora presente, una cultura che egli definì «maledetta
», in cui la scienza sembrava voler creare l’unico cammino possibile della ragione
e perfino della storia”. Una battaglia non di retroguardia se l’ultima
frontiera della scienza, il Nobel della Fisica a Giorgio Parisi, è la “complessità”:
l’accettazione in termine scientifico del busillis filosofico definito-indefinito.
Biagio de Giovanni, Giordano Bruno
Giambattista Vico e la filosofia meridionale,
Edizioni Scientifiche, pp.143 € 12
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