Draghi, canonizzazione difficile
Draghi si, Draghi no, sta succedendo per
l’ex presidente del consiglio quello che successe a Monti. Che dopo palazzo
Chigi era destinato a tutto, ed è finito nel nulla – giusto la toga di senatore,
regalo di Napolitano.
Il “whatever it takes” alla Banca
centrale europea, il salvataggio dell’euro (e dell’Italia), lo ha portato a
palazzo Chigi. Ma poi non al Quirinale. E ora, probabilmente, neanche a
Bruxelles. Draghi ha dei “carichi pendenti” politici.
La smobilitazione della Banca d’Italia di
Fazio, della Vigilanza e dei poteri d’indirizzo sulle banche, in obbedienza ai
suoi referenti milanesi, e in particolare a Bazoli, dominus della finanza “bianca”,
nonché della grande stampa lombarda, ha preparato le crisi che hanno scosso l’Italia
delle banche “bianche” fuori dell’orbita bazoliana, quelle venete e del Centro
Italia. E di quella “rossa” del Monte dei Paschi di Siena.
Alcune delle privatizzazioni cui aveva presieduto da direttore generale del Tesoro non sono riuscite. Specie quella della
Sip-Stet, regalata ai “poteri forti”, che hanno provveduto a spolparla
velocemente, distruggendo una primaria azienda, e handicappando l’Italia nella
cablatura – siamo ora dove eravamo venticinque anni fa, con la Sip-Stet e il suo
allora rivoluzionario sistema “Socrate”.
Solo da qualche anno la stampa di sinistra
ha cessato di bollare Draghi come l’uomo del “Britannia”, il panfilo reale inglese
a bordo del quale debuttò il piano italiano di privatizzazioni, per un’assemblea
scelta di banchieri, in una riunione segreta, il giorno della festa della Repubblica
del 1992. Dieci anni dopo Draghi diventava uno dei top manager della maggiore banca di affari, la Goldman Sachs. Incaricato anche di nuove regole internazionali sui mercati finanziari dopo il crac del 2007, ma senza esito. Fino alla cooptazione alla successione di Fazio.
Si deve a Draghi anche il cosiddetto “vincolo
esterno” sulla finanza pubblica. Draghi, negoziatore per l’Italia, in quanto
direttore generale del Tesoro, degli accordi sull’euro, agiva in questo caso in
subordine a Ciampi, dapprima in quanto governatore della Banca d’Italia poi, negli
anni 1992-1993 presidente del consiglio. Un “vincolo esterno”, cioè europeo, senza
previa revisione dei criteri di spesa, anzi appesi alla spesa corrente – non si
sa nemmeno a quali fini, tolto il sottogoverno: non ci sono priorità, non si danno
obiettivi, non si creano infrastrutture, si sopravvive, con nuove tasse (oggi
al 47 per cento del reddito, record mondiale, e senza progressività: una
tassazione ingiusta, oltre che abnorme).
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