Il mondo com'è (475)
astolfo
Vjaceslav Ivanovic Ivanov – “L’ultimo dei simbolisti russi”, N. Berberova,
“Quaderno nero”, p. 68, storico, filosofo, poeta, drammaturgo e critico
letterario, ha vissuto in Italia metà buona della sua vita, 1866-1949, dapprima
per lunghi periodi, due-tre anni, poi, dopo la rivoluzione leninista,
stabilmente. Sarà sepolto a Roma, nel cimitero acattolico a Testaccio, anche se
lavorò molto in Vaticano, protetto dal papa Pio XI. Beneficiario di una scheda
Treccani entusiasta: “Profondo conoscitore del mondo classico (Dionis i pradionistvo, “Dioniso
e i culti predionisiaci”, 1922) e moderno, spirito eminentemente religioso,
dialettico acuto, cercò di conciliare, in un umanesimo cristiano, ricco di
ampie vedute originali, l’Oriente slavo-bizantino con l’Occidente
germanico-latino…. Viaggiò molto; visse a Pietroburgo, dove, tra il 1905 e la
rivoluzione, la sua casa divenne uno dei più vivaci centri di rinnovamento
spirituale e culturale; a Baku, ove insegnò (1920-24) filosofia classica all’università,
e in Italia, a Pavia, poi a Roma; l’Italia divenne, dopo che si fu convertito
al cattolicesimo ed ebbe ottenuto la cittadinanza italiana, la sua patria di
adozione. Le sue poesie …. fanno di lui uno dei principali esponenti del
simbolismo russo, e al tempo stesso si distinguono, nella letteratura russa,
soprattutto per il loro carattere essenzialmente classico; espressione di una
cultura raffinata, intimamente vissuta, esse raggiungono, nella loro
sostenutezza ieratica ed ermetica, una rara perfezione”.
Un poeta cerniera nel simbolismo russo, tra il culto
dell’individualismo, del suo maestro Fiodor Sologub, il solo pensatore di
qualche rilievo filosofico in Russia, e la cosiddetta “età d’argento della letteratura
russa”, con i coetanei Brjusov, Blok e Belyi. Classicista, appassionato di
storia antica, ma anche uno dei primi fan di Nietzsche. Mediatore in
russo della Grecia classica, con traduzioni da Alceo, Bacchilide, Eschilo,
Pindaro, Saffo, autore di tragedie al modo greco, con coro, studioso, sule orme
di Nietzsche, di Dioniso e del mito. Di formazione germanica prima che
italiana.
Studiò storia e filosofia a Mosca, dove era nato, per poi
continuare in Germania, a vent’anni, nel 1886, per quattro anni, specializzandosi
in stria antica con Mommsen e Otto Hirschfeld – l’epigrafista (in collaborazione
con Mommsen), specialista di amministrazione dell’impero romano. Ivanov
produsse una ricerca sul sistema fiscale romano, redatta in latino, che un a
ventina dì’anni dopo, nel 19190, sarà anche pubblicata; “De societatibuis
vectigalium publicorum populi romani”. Ma soprattutto vi maturò una passione
per Roma, per la città. Una passione che nelle memorie (“…) attribuisce all’insistenza
dello storico pietroburghese Ivan Michailovich Grevs, progressista (fautore
dell’istruzione aperta alle donne), uno dei fondatori della Scuola russa di
Medievalismo, che la struttura sociale dell’Europa medievale, compresa l’Europa
orientale, riportava all’influenza dell’impero romano. Grevs, scrive in una “Lettera
autobiografica”, nel 1917, “mi ordinò
imperiosamente di recarmi a Roma, per la quale non mi sentivo abbastanza
preparato; gli sono ancora oggi grato….. Sono state incomparabili le
impressioni che ho ricevuto da questo viaggio primaverile in Italia attraverso
la valle del Rodano, Arles, Nimes e Orange con le loro antiche rovine,
attraverso Marsiglia, Mentone e Genova”. Fu a Roma, Napoli, in Sicilia, e poi
di nuovo a Roma, per tre anni: “Siamo rimasti a lungo a Roma vivendo con un’umile
famiglia italiana, cosicché dopo tre anni di questa vita ci sentivamo in un
certo senso romani. Frequentavo l’Istituto Archeologico tedesco, partecipavo
insieme agli allievi (i ‘ragazzi capitolini’) alle passeggiate archeologiche,
pensavo solo alla filologia e all’archeologia mentre lentamente rielaboravo,
approfondivo e ampliavo la mia tesi, anche se per lungo tempo ero rimasto senza
forze a causa della malaria”.
Il plurale
si riferisce all’incontro a Roma con quella che sarà la sua seconda moglie, Lidija
Dimitrevna Zinov'eva-Annibal, al Colosseo (“La nostra prima ebrezza, ebrezza
rea di libertà, / benedisse / spettrale il Colosseo”). Seguito da un viaggio ad
Assisi che lei dirà (scrivendone a Grevs) di “rinascita”: “Siamo tornati da
quel nostro viaggio fortemente rinnovati e abbiamo iniziato in maniera
infinitamente più profonda a capire l’arte, cioè il gradino più elevato
dell'esistenza umana. (...) Qui in Italia ci siamo sentiti più che mai nella
nostra patria spirituale”. A Roma la coppia finirà per stabilirsi. Dei 43 anni
vissuti complessivamente all’estero, trenta Ivanov li ha trascorsi in Italia. È
a Firenze e Roma nei mesi da agosto a ottobre del 1910. Torna a Roma per un
anno, dall’ottobre del 1912, che dedica alla traduzione di Eschilo. Nel 1920
decide di lasciare Mosca, dove si era trasferito al ritorno da Roma, per l’Italia.
Un viaggio che motiva con la creazione di un Istituto di letteratura e arte
russa. Ma non ottiene il permesso. Si trasferisce allora a Bakù, professore di
umanistica nell’università locale – un corso lo dedica a “Dante e Petrarca”.
Quattro anni dopo ottiene il permesso di espatrio, proprio per la creazione a
Roma di un’Accademia Russa – un “Istituto russo di archeologia, storia e
critica d’arte”. Un progetto voluto dal commissario all’Istruzione Lunačarskij e dal direttore dell’Accademia Russa, Kogan, che però
non decolla.
Ivanov resta
comunque a Roma, a sue spese, coinvolto in varie attività dalle sue nuove
amicizie, Poggioli, Tatjana Tolstaja, Ol’ga Resnevič Signorelli. Grazie al rapporto
con Ettore Lo Gatto partecipa a vari progetti, letterari, teatrali ed editoriali
– in particolare collabora per più schede con l’Enciclopedia Treccani.
Per un lungo
periodo, dal 1926 al 1934, risiede a Pavia, lettore di lingue al Collegio Borromeo,
poi docente di Letteratura Russa all’università
statale. Bene accolto da Pietro Treves, Stefano Jacini, Antonio Casati, Tommaso
Gallarati-Scotti. Onorato dalle visite, nella sua funzione al Borromeo, di Martin
Buber, tra i tanti, e nel 1934 di Croce. Un incontro, quest’ultimo che Gallarati
Scotti ricorderà trent’anni dopo, in “Incontri e memorie”, come “dialogo
drammatico, doloroso e a momenti - anche se contenuto dalla correttezza –
violento” (senza specificarne il motivo). L’anno prima, un intero fascicolo del
“Convegno”, la rivista milanese fondata nel 1920 dal russista Ferrieri, il n.
10-12, è dedicato a Ivanov. Per iniziativa del germanista Alessandro Pellegrini.
Con una scelta di poesie, saggi, lettere. E con contributi critici di Gabriel
Marcel e E.R.Curtius tra gli altri. Il saggio di Pellegrini è sulla “Corrispondenza
da un angolo all’altro”, tra Ivanov e Geršenzon, pubblicata l’anno prima nella
traduzione di Ol’ga Signorelli.
A fine 1934
Ivanov lascia Pavia per Roma. Dal 1936 insegna slavo ecclesiastico al collegio
vaticano Russicum – un incarico trasformato in un posto da professore a inizio del
1938 da Pio XI. Al Russicum e al Pontificio Istituto Orientale tiene brevi
corsi di letteratura russa - nell'anno accademico 1939-1940 fa un corso su
Dostoevskij. Lavora anche a un'edizione commentata delle Sacre Scritture in
lingua russa, per la quale prepara gi “Atti degli Apostoli”, le “Lettere degli
Apostoli”, l’“Apocalisse” e il “Salterio”. Collabora contemporaneamente anche
alla traduzione in italiano di alcune sue opere, tra esse in particolare la
melopea “L’Uomo”, riscritta rispetto all’originale russo.
L'ultima sua opera poetica è il
“Diario romano 1944” (114 componimenti, il primo datato 1 gennaio, l’ultimo 31
dicembre). Una sorta di cronaca dell’occupazione tedesca, dei bombardamenti, e
della liberazione, argomentata filosoficamente, col senso della storia e la ricerca
della verità. Una raccolta di “Sonetti romani” aveva anticipato il “Diario”.
Lavoro obbligatorio – Fu a lungo un beneficio per i poveri, una sorta di reddto di cittadinanza legato però a una attività, che la comunità proponeva e gestiva. Proposto e attuato da un riformatore, Sir
Edward Chadwick, per i lavoratori disoccupati, pena la perdita dei sussidi, nel 1834. Lo stesso riformatore spiegava nel 1842, con misurazioni millimetriche,
di quanto le abitazioni più igieniche avrebbero elevato la longevità a la
produttività dei lavoratori.
Utilitarista, amico di John Stuart Mill e
assistente letterario di Bentham, di cui poi sarà il legatario principale, Chadwick fu l’animatore
del dibattito sulla riforma delle Poor Laws e l’architetto del Poor Laws
Amendment Act, la nuova legge, del 1834. Le municipalità erano costituite in Poor Law Union, una sorta di società di gestione degli aiuti ai poveri.
Un’istituzione che durerà un secolo, fino al 1930, e consisterà principalmente
nella gestione di una workhouse per i poveri, un laboratorio-opificio per
mantenere in attività i poveri, disoccupati. L’obiettivo era levare i poveri dalla
strada, passando dall’“aiuto esterno”, dalla carità, all’“aiuto interno”, un
sussidio sotto forma di retribuzione.
Di questa riforma fu presto vittima l’Irlanda. Colpita dieci
anni dopo dalla peronospera, che distrusse le coltivazioni di patate,
l’alimento principale e la principale fonte di reddito. In quella che sarà
chiamata la Grande Carestia, che dal 1845 al 1849 fece un milione di moti, si
stima – e portò all’emigrazione un altro milione. In base al “sistema” del 1834
non fu possibile un aiuto diretto alle popolazioni colpite, solo l’internamento
nelle workhouse, dove non c’era lavoro e quindi reddito.
Libia – Fu Tripolitania e Cirenaica fino al 1934.
Assunse il nome di Libia durante il governatorato di Italo Balbo, su impulso di
Mussolini nel quadro del revival della romanità, dell’impero. Ma sempre
decentrata: Balbo nel 1937, per tentare di ridurre le ostilità tra Cirenaica e
Tripolitania, e insieme venire incontro alla tribalizzazione del paese, articolò
la Libia in quattro province e un territorio sahariano. Quest’ultimo,
denominato Territorio Militare del Sud, ebbe centro a Hun, nel Nord del Fezzan
(di cui Gheddafi ha fatto una città-giardino), le province furono chiamate di
Tripoli, Bengasi, Derna e Misurata.
Il controllo
del tribalismo fu l’attività maggiore del lungo dominio di Gheddafi, 1969-2011.
Particolarmente forte fu la repressione nell’ultimo decennio del Novecento, del
fondamentalismo islamico, acutizzato dal successo del khomeinismo in Iran, che
altrove nel Maghreb, specie in Algeria, fece centinaia di migliaia di morti, in
sanguinosissime guerre.
Resa
incondizionata – La
formula che regola i confitti da un secolo in qua è americana, annota Gertrude
Stein nel suo diario di guerra, “Guerre che ho visto”, p. 126. Lo annota
all’indomani della conferenza di Casablanca, gennaio 1943, tra Churchill e
F.D.Roosevelt, nel corso della quale il presidente americano introdusse la
nozione nel diritto internazionale proclamando appunto che la “resa
incondizionata” sarebbe stata imposta a Germania, Italia, e Giappone. G. Stein
si meraviglia della mancata reazione in Europa, e ricorda che la formula fu del
generale Ulysses Simpson Grant nella guerra civile americana, che per questo fu
prolungata: “Resa incondizionata che cosa strana… Resa incondizionata. Gli
europei sono affascinati dall’idea della resa incondizionata. Nessuno in Europa
ne aveva mai sentito parlare”. E ripete: “Gli europei sono affascinati
dall’idea della resa incondizionata. Nessuno in Europa ne aveva mai sentito
parlare”. E si dà questa ragione: “La vita in Europa è condizionata”, quindi la
parola “incondizionata (è) come una cosa nuova come il jazz o l’automobile
quando erano una novità o la radio, è qualcosa di nuovo e gli europei amano
qualcosa di nuovo. A me piace parlarne con loro, dirgli del generale Grant con
le sue iniziali U.S .Grant e che veniva chiamato United States Grant e
Unconditional Surrender Grant”.
leuzzi@antiit.eu
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