sabato 11 maggio 2024

Il mondo com'è (475)

astolfo


Vjaceslav Ivanovic Ivanov – “L’ultimo dei simbolisti russi”, N. Berberova, “Quaderno nero”, p. 68, storico, filosofo, poeta, drammaturgo e critico letterario, ha vissuto in Italia metà buona della sua vita, 1866-1949, dapprima per lunghi periodi, due-tre anni, poi, dopo la rivoluzione leninista, stabilmente. Sarà sepolto a Roma, nel cimitero acattolico a Testaccio, anche se lavorò molto in Vaticano, protetto dal papa Pio XI. Beneficiario di una scheda Treccani entusiasta: “Profondo conoscitore del mondo classico (Dionis i pradionistvo, “Dioniso e i culti predionisiaci”, 1922) e moderno, spirito eminentemente religioso, dialettico acuto, cercò di conciliare, in un umanesimo cristiano, ricco di ampie vedute originali, l’Oriente slavo-bizantino con l’Occidente germanico-latino…. Viaggiò molto; visse a Pietroburgo, dove, tra il 1905 e la rivoluzione, la sua casa divenne uno dei più vivaci centri di rinnovamento spirituale e culturale; a Baku, ove insegnò (1920-24) filosofia classica all’università, e in Italia, a Pavia, poi a Roma; l’Italia divenne, dopo che si fu convertito al cattolicesimo ed ebbe ottenuto la cittadinanza italiana, la sua patria di adozione. Le sue poesie …. fanno di lui uno dei principali esponenti del simbolismo russo, e al tempo stesso si distinguono, nella letteratura russa, soprattutto per il loro carattere essenzialmente classico; espressione di una cultura raffinata, intimamente vissuta, esse raggiungono, nella loro sostenutezza ieratica ed ermetica, una rara perfezione”.
Un poeta cerniera nel simbolismo russo, tra il culto dell’individualismo, del suo maestro Fiodor Sologub, il solo pensatore di qualche rilievo filosofico in Russia, e la cosiddetta “età d’argento della letteratura russa”, con i coetanei Brjusov, Blok e Belyi. Classicista, appassionato di storia antica, ma anche uno dei primi fan di Nietzsche. Mediatore in russo della Grecia classica, con traduzioni da Alceo, Bacchilide, Eschilo, Pindaro, Saffo, autore di tragedie al modo greco, con coro, studioso, sule orme di Nietzsche, di Dioniso e del mito. Di formazione germanica prima che italiana.
Studiò storia e filosofia a Mosca, dove era nato, per poi continuare in Germania, a vent’anni, nel 1886, per quattro anni, specializzandosi in stria antica con Mommsen e Otto Hirschfeld – l’epigrafista (in collaborazione con Mommsen), specialista di amministrazione dell’impero romano. Ivanov produsse una ricerca sul sistema fiscale romano, redatta in latino, che un a ventina dì’anni dopo, nel 19190, sarà anche pubblicata; “De societatibuis vectigalium publicorum populi romani”. Ma soprattutto vi maturò una passione per Roma, per la città. Una passione che nelle memorie (“…) attribuisce all’insistenza dello storico pietroburghese Ivan Michailovich Grevs, progressista (fautore dell’istruzione aperta alle donne), uno dei fondatori della Scuola russa di Medievalismo, che la struttura sociale dell’Europa medievale, compresa l’Europa orientale, riportava all’influenza dell’impero romano. Grevs, scrive in una “Lettera autobiografica”, nel 1917, “mi ordinò imperiosamente di recarmi a Roma, per la quale non mi sentivo abbastanza preparato; gli sono ancora oggi grato….. Sono state incomparabili le impressioni che ho ricevuto da questo viaggio primaverile in Italia attraverso la valle del Rodano, Arles, Nimes e Orange con le loro antiche rovine, attraverso Marsiglia, Mentone e Genova”. Fu a Roma, Napoli, in Sicilia, e poi di nuovo a Roma, per tre anni: “Siamo rimasti a lungo a Roma vivendo con un’umile famiglia italiana, cosicché dopo tre anni di questa vita ci sentivamo in un certo senso romani. Frequentavo l’Istituto Archeologico tedesco, partecipavo insieme agli allievi (i ‘ragazzi capitolini’) alle passeggiate archeologiche, pensavo solo alla filologia e all’archeologia mentre lentamente rielaboravo, approfondivo e ampliavo la mia tesi, anche se per lungo tempo ero rimasto senza forze a causa della malaria”.
Il plurale si riferisce all’incontro a Roma con quella che sarà la sua seconda moglie, Lidija Dimitrevna Zinov'eva-Annibal, al Colosseo (“La nostra prima ebrezza, ebrezza rea di libertà, / benedisse / spettrale il Colosseo”). Seguito da un viaggio ad Assisi che lei dirà (scrivendone a Grevs) di “rinascita”: “Siamo tornati da quel nostro viaggio fortemente rinnovati e abbiamo iniziato in maniera infinitamente più profonda a capire l’arte, cioè il gradino più elevato dell'esistenza umana. (...) Qui in Italia ci siamo sentiti più che mai nella nostra patria spirituale”. A Roma la coppia finirà per stabilirsi. Dei 43 anni vissuti complessivamente all’estero, trenta Ivanov li ha trascorsi in Italia. È a Firenze e Roma nei mesi da agosto a ottobre del 1910. Torna a Roma per un anno, dall’ottobre del 1912, che dedica alla traduzione di Eschilo. Nel 1920 decide di lasciare Mosca, dove si era trasferito al ritorno da Roma, per l’Italia. Un viaggio che motiva con la creazione di un Istituto di letteratura e arte russa. Ma non ottiene il permesso. Si trasferisce allora a Bakù, professore di umanistica nell’università locale – un corso lo dedica a “Dante e Petrarca”. Quattro anni dopo ottiene il permesso di espatrio, proprio per la creazione a Roma di un’Accademia Russa – un “Istituto russo di archeologia, storia e critica d’arte”. Un progetto voluto dal commissario all’Istruzione Lunačarskij e dal direttore dell’Accademia Russa, Kogan, che però non decolla.
Ivanov resta comunque a Roma, a sue spese, coinvolto in varie attività dalle sue nuove amicizie, Poggioli, Tatjana Tolstaja, Ol’ga Resnevič Signorelli. Grazie al rapporto con Ettore Lo Gatto partecipa a vari progetti, letterari, teatrali ed editoriali – in particolare collabora per più schede con l’Enciclopedia Treccani.
Per un lungo periodo, dal 1926 al 1934, risiede a Pavia, lettore di lingue al Collegio Borromeo, poi   docente di Letteratura Russa all’università statale. Bene accolto da Pietro Treves, Stefano Jacini, Antonio Casati, Tommaso Gallarati-Scotti. Onorato dalle visite, nella sua funzione al Borromeo, di Martin Buber, tra i tanti, e nel 1934 di Croce. Un incontro, quest’ultimo che Gallarati Scotti ricorderà trent’anni dopo, in “Incontri e memorie”, come “dialogo drammatico, doloroso e a momenti - anche se contenuto dalla correttezza – violento” (senza specificarne il motivo). L’anno prima, un intero fascicolo del “Convegno”, la rivista milanese fondata nel 1920 dal russista Ferrieri, il n. 10-12, è dedicato a Ivanov. Per iniziativa del germanista Alessandro Pellegrini. Con una scelta di poesie, saggi, lettere. E con contributi critici di Gabriel Marcel e E.R.Curtius tra gli altri. Il saggio di Pellegrini è sulla “Corrispondenza da un angolo all’altro”, tra Ivanov e Geršenzon, pubblicata l’anno prima nella traduzione di Ol’ga Signorelli.
A fine 1934 Ivanov lascia Pavia per Roma. Dal 1936 insegna slavo ecclesiastico al collegio vaticano Russicum – un incarico trasformato in un posto da professore a inizio del 1938 da Pio XI. Al Russicum e al Pontificio Istituto Orientale tiene brevi corsi di letteratura russa - nell'anno accademico 1939-1940 fa un corso su Dostoevskij. Lavora anche a un'edizione commentata delle Sacre Scritture in lingua russa, per la quale prepara gi “Atti degli Apostoli”, le “Lettere degli Apostoli”, l’“Apocalisse” e il “Salterio”. Collabora contemporaneamente anche alla traduzione in italiano di alcune sue opere, tra esse in particolare la melopea “L’Uomo”, riscritta rispetto all’originale russo.
L'ultima sua opera poetica è il “Diario romano 1944” (114 componimenti, il primo datato 1 gennaio, l’ultimo 31 dicembre). Una sorta di cronaca dell’occupazione tedesca, dei bombardamenti, e della liberazione, argomentata filosoficamente, col senso della storia e la ricerca della verità. Una raccolta di “Sonetti romani” aveva anticipato il “Diario”.
 
Lavoro obbligatorio – Fu a lungo un beneficio per i poveri, una sorta di reddto di cittadinanza legato però a una attività, che la comunità proponeva e gestiva. Proposto e attuato da un riformatore, Sir Edward Chadwick, per i lavoratori disoccupati, pena la perdita dei sussidi, nel 1834. Lo stesso riformatore spiegava nel 1842, con misurazioni millimetriche, di quanto le abitazioni più igieniche avrebbero elevato la longevità a la produttività dei lavoratori.
Utilitarista, amico di John Stuart Mill e assistente letterario di Bentham, di cui poi sarà il legatario principale, Chadwick fu l’animatore del dibattito sulla riforma delle Poor Laws e l’architetto del Poor Laws Amendment Act, la nuova legge, del 1834. Le municipalità erano costituite in Poor Law Union, una sorta di società di gestione degli aiuti ai poveri. Un’istituzione che durerà un secolo, fino al 1930, e consisterà principalmente nella gestione di una workhouse per i poveri, un laboratorio-opificio per mantenere in attività i poveri, disoccupati. L’obiettivo era levare i poveri dalla strada, passando dall’“aiuto esterno”, dalla carità, all’“aiuto interno”, un sussidio sotto forma di retribuzione.
Di questa riforma fu presto vittima l’Irlanda. Colpita dieci anni dopo dalla peronospera, che distrusse le coltivazioni di patate, l’alimento principale e la principale fonte di reddito. In quella che sarà chiamata la Grande Carestia, che dal 1845 al 1849 fece un milione di moti, si stima – e portò all’emigrazione un altro milione. In base al “sistema” del 1834 non fu possibile un aiuto diretto alle popolazioni colpite, solo l’internamento nelle workhouse, dove non c’era lavoro e quindi reddito.
 
Libia – Fu Tripolitania e Cirenaica fino al 1934. Assunse il nome di Libia durante il governatorato di Italo Balbo, su impulso di Mussolini nel quadro del revival della romanità, dell’impero. Ma sempre decentrata: Balbo nel 1937, per tentare di ridurre le ostilità tra Cirenaica e Tripolitania, e insieme venire incontro alla tribalizzazione del paese, articolò la Libia in quattro province e un territorio sahariano. Quest’ultimo, denominato Territorio Militare del Sud, ebbe centro a Hun, nel Nord del Fezzan (di cui Gheddafi ha fatto una città-giardino), le province furono chiamate di Tripoli, Bengasi, Derna e Misurata.
Il controllo del tribalismo fu l’attività maggiore del lungo dominio di Gheddafi, 1969-2011. Particolarmente forte fu la repressione nell’ultimo decennio del Novecento, del fondamentalismo islamico, acutizzato dal successo del khomeinismo in Iran, che altrove nel Maghreb, specie in Algeria, fece centinaia di migliaia di morti, in sanguinosissime guerre.


Resa incondizionata – La formula che regola i confitti da un secolo in qua è americana, annota Gertrude Stein nel suo diario di guerra, “Guerre che ho visto”, p. 126. Lo annota all’indomani della conferenza di Casablanca, gennaio 1943, tra Churchill e F.D.Roosevelt, nel corso della quale il presidente americano introdusse la nozione nel diritto internazionale proclamando appunto che la “resa incondizionata” sarebbe stata imposta a Germania, Italia, e Giappone. G. Stein si meraviglia della mancata reazione in Europa, e ricorda che la formula fu del generale Ulysses Simpson Grant nella guerra civile americana, che per questo fu prolungata: “Resa incondizionata che cosa strana… Resa incondizionata. Gli europei sono affascinati dall’idea della resa incondizionata. Nessuno in Europa ne aveva mai sentito parlare”. E ripete: “Gli europei sono affascinati dall’idea della resa incondizionata. Nessuno in Europa ne aveva mai sentito parlare”. E si dà questa ragione: “La vita in Europa è condizionata”, quindi la parola “incondizionata (è) come una cosa nuova come il jazz o l’automobile quando erano una novità o la radio, è qualcosa di nuovo e gli europei amano qualcosa di nuovo. A me piace parlarne con loro, dirgli del generale Grant con le sue iniziali U.S .Grant e che veniva chiamato United States Grant e Unconditional Surrender Grant”.

leuzzi@antiit.eu

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