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lunedì 20 maggio 2024

Il toscano era il più latino

Per mille lire appena trent’anni fa, mezzo euro, una storia della lingua che, non così profusa come il Migliorini ma è altrettanto ben raccontata nei suoi sviluppi. Dal volgare illustre di Dante al Rinascimento, con l’apogeo e l’improvviso declino del latino, e quindi della promozione della lingua. Nelle fattezze del toscano. Una storia aggiornata fino ai “postgaddiani”, i dimenticati Silvano Ambrogi e Gianni Toti, con Vincenzo Consolo e Stefano D’Arrigo.
Un percorso noto, che però si racconta in modo affascinante. Il toscano s’impone non perchéèla lingua delle banche e le fiere, ma perché è il volgare più affine al latino. Filtrato dal provenzale. Come già, agli albori dellapoesia “italiana”, nela scuola siciliana, il dialetto o volgare si basava sulle parole di origine latina. Via Provenza: Iacopo da Lentini tiene a battesimo il sonetto dal provenzale “sonnet”, piccolo suono. Ancora Boccaccio usa il verbo a fine frase, “alla maniera siciliana”, altro aspetto del volgare latineggiante. Così in contempranea i “Proverbi de femene” in Veneto, serie di quartine anti-femminili, e a Genova nel 1190 circa il genovese del provenzale Raimbaut (Rambaldo) di Vaqueiras. E come si passa dal provenzale al “Novellino”? E il Dolce Stil Novo, naturalmente, che “nasce alla scuola del bolognese Guido Guinizzelli”.
Il toscano s’impone dopo che la Sicilia viene viene segregata dall’Italia, con la pace di Caltabellotta, 1302. Ma con lentezza, ancora nel ’500 la lingua di Dante è ritenuta priva di “decoro”. E prima del fiorentino erano in voga il lucchese e il pisano. Il toscano lo impone l’emiliano Ariosto, a metà Cinqecento: “Infarcito di padovano letterario e di latinismi nella prima edizione (1516), il ‘Furioso’ viene emendato nel 1521, e profondamente rivisto in senso toscano nel 1532”. Nelo stesso tempo il “modulo toscano” si diffonde in Europa – “non sono  poche le parle italiane fancesizzate: macarons, macaronique, parfum, balcon, …” – Lanuzza ne elenca una ventina. Sempre nel ‘500 compaiono “democarzia”, “luterano”, “potestante”, “gesuita”, “indifeso”, “concerto”, “bravura”, “bravata”, et al. “Scarrupato” è nel “Candelaio” di Bruno – coma “bardascio” (invertito).
Nel 1779 l’abate Galiani pubblica un trattato “Del dialetto napoletano”, ma lo scrive in toscano. Presto però si delinea una lingua che non è più il toscano. In contemporanea con Manzoni che risciacquava “i panni in Arno”, Leopardi invece annota, sulla questione se Firenze e la Toscana debbano sempre considerarsi il centro della lingua, che “è lo stesso che dire che gli italiani ddebbano scrivere in lingua antica e morta (giacché la letteratura toscana è morta”).
Non è inutile ricordare che Vittorio Emanuele II sapeva parlare solo piemontese e francese. E che “l’Italia è la nazione che, tenuto conto della sua superficie, ha più daletti”, e più pervicaci.
E altre cose interssanti. Sui dialtti - il friulano di Pasolloni è letteario, non propriamente dialettale. Sui gerghi (“sindacalese”, “sinistrese”, “burocratese”), gli anglicismi diffusi, i linguaggi settoriali, politico, pubblicitario, sportivo (“tutto aggettivi e sostantivi aggettivanti”), e le “parole interdette”, o turpiloquio, anche questo sempre più diffuso – “varietà gergale non disdegnata nemmeno dal papa Benedetto XIV, che, rimproverato di ripetere troppo spesso la parola ‘sporca’, sbraitava: «Cazzo! Cazzo! Lo ripeterò finché non sarà più sporca!»”.
Una rilettura benefica anche perché non se ne possono più fare – qualcuno ha studiato o studia la lingua e la sua evoluzione?
Stefano Lanuzza, Storia della lingua italiana, Tascabili Economici Newton, pp. 93 pp.vv.

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