Il toscano era il più latino
Per mille lire appena
trent’anni fa, mezzo euro, una storia della lingua che, non così profusa come
il Migliorini ma è altrettanto ben raccontata nei suoi sviluppi. Dal volgare illustre
di Dante al Rinascimento, con l’apogeo e l’improvviso declino del latino, e
quindi della promozione della lingua. Nelle fattezze del toscano. Una storia
aggiornata fino ai “postgaddiani”, i dimenticati Silvano Ambrogi e Gianni Toti,
con Vincenzo Consolo e Stefano D’Arrigo.
Un percorso noto, che però
si racconta in modo affascinante. Il toscano s’impone non perchéèla lingua
delle banche e le fiere, ma perché è il volgare più affine al latino. Filtrato
dal provenzale. Come già, agli albori dellapoesia “italiana”, nela scuola
siciliana, il dialetto o volgare si basava sulle parole di origine latina. Via
Provenza: Iacopo da Lentini tiene a battesimo il sonetto dal provenzale
“sonnet”, piccolo suono. Ancora Boccaccio usa il verbo a fine frase, “alla
maniera siciliana”, altro aspetto del volgare latineggiante. Così in
contempranea i “Proverbi de femene” in Veneto, serie di quartine anti-femminili,
e a Genova nel 1190 circa il genovese del provenzale Raimbaut (Rambaldo) di
Vaqueiras. E come si passa dal provenzale al “Novellino”? E il Dolce Stil Novo,
naturalmente, che “nasce alla scuola del bolognese Guido Guinizzelli”.
Il toscano s’impone dopo
che la Sicilia viene viene segregata dall’Italia, con la pace di Caltabellotta,
1302. Ma con lentezza, ancora nel ’500 la lingua di Dante è ritenuta priva di
“decoro”. E prima del fiorentino erano in voga il lucchese e il pisano. Il
toscano lo impone l’emiliano Ariosto, a metà Cinqecento: “Infarcito di padovano
letterario e di latinismi nella prima edizione (1516), il ‘Furioso’ viene emendato
nel 1521, e profondamente rivisto in senso toscano nel 1532”. Nelo stesso tempo
il “modulo toscano” si diffonde in Europa – “non sono poche le parle italiane fancesizzate: macarons, macaronique, parfum, balcon, …” – Lanuzza
ne elenca una ventina. Sempre nel ‘500 compaiono “democarzia”, “luterano”,
“potestante”, “gesuita”, “indifeso”, “concerto”, “bravura”, “bravata”, et al.
“Scarrupato” è nel “Candelaio” di Bruno – coma “bardascio” (invertito).
Nel 1779 l’abate Galiani
pubblica un trattato “Del dialetto napoletano”, ma lo scrive in toscano. Presto
però si delinea una lingua che non è più il toscano. In contemporanea con
Manzoni che risciacquava “i panni in Arno”, Leopardi invece annota, sulla
questione se Firenze e la Toscana debbano sempre considerarsi il centro della
lingua, che “è lo stesso che dire che gli italiani ddebbano scrivere in lingua
antica e morta (giacché la letteratura toscana è morta”).
Non è inutile ricordare che
Vittorio Emanuele II sapeva parlare solo piemontese e francese. E che “l’Italia
è la nazione che, tenuto conto della sua superficie, ha più daletti”, e più
pervicaci.
E altre cose interssanti. Sui
dialtti - il friulano di Pasolloni è letteario, non propriamente dialettale.
Sui gerghi (“sindacalese”, “sinistrese”, “burocratese”), gli anglicismi
diffusi, i linguaggi settoriali, politico, pubblicitario, sportivo (“tutto
aggettivi e sostantivi aggettivanti”), e le “parole interdette”, o turpiloquio,
anche questo sempre più diffuso – “varietà gergale non disdegnata nemmeno dal
papa Benedetto XIV, che, rimproverato di ripetere troppo spesso la parola
‘sporca’, sbraitava: «Cazzo! Cazzo! Lo ripeterò finché non sarà più sporca!»”.
Una rilettura benefica
anche perché non se ne possono più fare – qualcuno ha studiato o studia la lingua
e la sua evoluzione?
Stefano Lanuzza, Storia della lingua italiana, Tascabili
Economici Newton, pp. 93 pp.vv.
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