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sabato 8 giugno 2024

Abbasso la mamma

“Dicono dei padri che violentano le figlie, ma io ho visto Angela violentare la mia prima sorella”, Angela è la madre: “Annientarla, un giorno dopo l’altro”. Questo è scioccante ma non troppo: ognuno ha visto nella propria o altrui famiglia casi del genere, un rapporto aggressivissimo madre-figlia – non se ne parla, perché Freud non ne ha parlato, la psicologia non si sa cos’è, e il politicamente corretto è femminista, ma è un fatto, notorio. Se non che la parola più ricorrente è “maleodorante”, dalla prima riga: “Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza”.
Una filippica, così si presenta il racconto in ripetuti tornanti, contro il legame materno: “Ma io che c’entro con questa donna?  Che cos’ho da spartire con queste carni dalle quali sono uscito e dalle quali tutto mi separa”. La demolizione, all’apparenza, del legame parentale ritenuto più sacro, la maternità. Eretica per l’epoca, l’epoca contemporanea, femminista a occhi chiusi. Ma forse, inconsciamente?, un atto d’insubordinazione.
Questo è vero. Passati i sessant’anni, come nota di se stesso, per accentuare il suo ruolo di vittima, sessant’anni di insolenze e violenze materne, l’autore si lascia andare alla liberazione mentale dell’età adulta. Non antifemminile, molte donne amate ricorrono, zie, sorelle, moglie. Cioè, non misogino, ma contro il potere che la donna può esercitare, nefasto, in quanto madre. A cui viene opposta la figura paterna. Di un padre in là con gli anni e non affettuoso, non smanceroso, ma attento, e un porto sicuro per i ragazzi - commercialista di giorno, con sudio centrale e importante, cultore di libri rari con cui passa le serate solitarie. Un Filottete, l’autore decide da ultimo. Fratello maggiore, discreto, di un eroe di guerra, un militare medaglia d’oro nella guerra contro l’occupazione tedesca, per avere immolato nel giugno 1944 “la sua purissima giovinezza alla patria risorgente” – insomma un eroe della Resistenza, anche se quella militare non si riconosce. Un padre “altoborghese, cresciuto in condizione agiata”, con barca, seppure in condivisione, “con curiosità intellettuali e gusto per l’arte” – “non è conformista, è indulgente verso le debolezze, quelle degli altri più ancora delle proprie. Non sa condannare….”. Un padre che l’autore ritroverà negli zii e cugini, anche loro altoborghesi, a Milano.
Ma, poi, anche la madre vituperata non è da poco. Si è sposata incinta. Dopo due fidanzati “calabresi”, uno intelligente e uno bello. Forse non ha nemmeno tradito il marito-padre, di età doppia della sua. Con il quale invece ha fatto tre figli. “Assomiglia all’attrice Lea Massari”, che non è poco. E insomma, “anche lei è stata giovane, ed è andata a scuola facendo il classico in anni in cui non è facile che una ragazza orfana di padre e di condizione umile vada al liceo”. Dove ha studiato con profitto. Ha conoscenza squisita del latino, risolvendo al figlio, e all’amico latinista con cui il figlio studia, qualche problemino d’interpretazione. Di Filologia romanza usa dire “Filologia e romanzo”. Ma a “Filologia e romanzo” ha preso 28, come il figlio scrittore, pur “tenendo «a panza annanze»”. Ed è capace di trovare di molto napoletano le radici remote, greche e latine. “Le sono sempre piaciute le lingue classiche, il greco e il latino. È affascinata dalle sopravvivenze del greco e del latino nel napoletano”. Che non è da tutti rintracciare, specie dai famosi verbi greci del Pechenino. Ha perfino fatto studi di pedagogia, psicologia e teologia per affiancare la figlia maggiore negli studi e nella professione - di insegnante di religione.
Se non che è sboccata. La madre non riesce a parlare se non al modo delle “vaiasse nel facciaffrunto”, le popolane in piazza. Una madre beneventana, quindi un poco strega. “Sgherra” si definisce – è sannita prima che beneventana. “In un paese in cui ogni famiglia ha il suo soprannome, quelli del ramo di suo padre sono detti «sgherri»”, ingiuria (“sgherri come guardie armate, milizie private, gente a cui non la si fa, prepotenti”) che lei rivendica con orgoglio. Un concentrato del brutto: “Ne detesto il qualunquismo, il razzismo, il classismo, l’egoismo”, si dice il narratore a un certo punto, “l’opportunismo, il trasformismo, la mezza cultura peggiore dell’ignoranza, il rancore, il coacervo di mali nazionali che lei incarna in blocco, nessuno escluso, al punto da essermi convinto che se c’è una figura simbolo degli orrori dell’Italia, una creatura di carne e ossa che tutti li racchiude, questa è Angela, mia madre”. Che però è una persona, non una figura – e in quanto figura non è tanto italiana quanto europea, asiatica (araba sicuramente), latinoamericana, americana.
“La Talpa non fa che cucinare, e non parla che di mangiare” - la “vaiassa” e “sgherra” è detta in famiglia anche la Talpa. Quando non inveisce contro le “zoccole”. Cioè contro le donne: ogni donna è una zoccola, ma specialmente le figlie. Lei e la sua amica Carmela, un’altra che ama il turpiloquio, Franchini dice “the last two of a vanishing people,come l’ultimo dei Mohicani”.
Con molte annotazioni di costume, d’epoca. Del tipo: per i bambini “il rito crudele del riposo pomeridiano”. O le conversazioni sotto l’ombrellone, in spiaggia - alle diverse latitudini, a Formia piuttosto che a Scalea. È l’epoca, negli anni dell’autore in famiglia, della “cucina con «tinello»”. Cioè della familiarità obbligata, il “tinello”, adiacente alla cucina, fungendo da soggiorno, e le altre stanze restando chiuse – contro la polvere, per il decoro, in attesa degli ospiti che non si invitano mai. “Gli uomini appaiono sicuri di sé, convinti del mondo immobile e gerarchico che hanno creato o accettato, e noi li odiamo, ma le donne, molte di queste donne, sono pazze e noi non ce ne accorgiamo”.
La madre è anche Napoli, i riti e miti che circuiscono la città, e stancano. Ripetutamente, in ogni circostanza. Ed è il raffronto Nord-Sud perpetuo, anteleghista, per ogni evento. Un modo d’essere o di dire in effetti diffuso, e stucchevole.
Ma, poi, Napoli è celebrata indirettamente nel dialetto, di cui Franchini non si sa privare, anzi fa un uso estensivo. La lettura si direbbe la più “napoletana” dopo Basile, anche più di Eduardo o Di Giacomo - più “veracemente” napoletana.
Uno sbocco di malumore? Non per duecento e più pagine - riscritte. Di un’opera che sa di “non finito”. Non per mancanza di tempo o di voglia, o di progetto, ma per l’incertezza dell’artista sull’ultimo tocco, dopo avere sbozzato il tronco con colpi violenti di scalpello, con spazzolate invece dello stencil - il “non finito” che dà più rilievo al soggetto e alla sua storia, anche se irrisolta.
Non un libello. Un lungo epicedio piuttosto. Il tributo a una madre “senza tenerezza, la mia madre senza grazia, la mia madre di rabbia e furia”. Angela, la madre, “ha attraversato altre mie storie”, confida l’autore, “sempre con un’ombra negativa”, tirata in campo “per esprimere qualche forma di disvalore”. Nel libro su Giancarlo Siani, intitolato “L’abusivo”, come personificazione dell’“amoralità familiare meridionale”, da Franchini appaiata all’immoralità, la violenza,  la sopraffazione della “criminalità organizzata”. Un collegamento che prospetta una  énaurmité ubuesca alla base del racconto. Dopo la constatazione: “Ma che ne ho saputo io di lei per tutti gli anni della mia adolescenza e giovinezza  e della sua maturità”? In casa Franchini come in tutte le case, ognuno lo sa: i genitori non sono più un problema “dopo”, in vita sono vittime dei figli, che li hanno per impaccio, e della disattenzione necessaria: “Che ne sanno di noi i nostri figli?” Malinconico: “Per lungo tempo non diamo vita”, i genitori, “che a fortuite eclissi”.
Una trenodia doppia: anche alla città, da emigrato senza nostos, senza ritorno. Malgrado anche qui le maldicenze, un tributo alla lingua. Angela e la città confluiscono alla fine in Pino Daniele, “Napule è”.
Un lavoro di “scrittura”, curata, di bulino, senza plot. Esito paradossale per un editor così rinomato come Franchini – non è lui il “curatore editoriale”, come si definisce, l’autore ombra,  del best-seller del Millennio, “Gomorra”?
Finisce con la giustificazione: “Ad amare come viene sono buoni tutti, e anche chi ama senza essere riamato trova consolazione in questo sacrificio, ma chi è incapace di risvegliare attorno a sé le forme minori dell’amore conduce una vita aspra e non sa perché”. L’indulgenza prevale. L’effetto alla lettura è gargantuesco, Franchini sembra essersi divertito a fare il Rabelais, con eccessi linguistici e anche caratteriali, di aggettivazione, situazioni, deviazioni\digressioni, rivolgimenti improvvisi. Attorno a un personaggio “odiosamato”, ma autonomo, a tutto tondo – col tocco di “nonfinito”.
Antonio Franchini, Il fuoco che ti porti dentro
, Marsilio, pp. 223 € 18

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