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Abbasso la mamma
“Dicono dei padri
che violentano le figlie, ma io ho visto Angela violentare la mia prima
sorella”, Angela è la madre: “Annientarla, un giorno dopo l’altro”. Questo è
scioccante ma non troppo: ognuno ha visto nella propria o altrui famiglia casi
del genere, un rapporto aggressivissimo madre-figlia – non se ne parla, perché Freud
non ne ha parlato, la psicologia non si sa cos’è, e il politicamente corretto è
femminista, ma è un fatto, notorio. Se non che la parola più ricorrente è “maleodorante”,
dalla prima riga: “Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre
puzza”.
Una filippica,
così si presenta il racconto in ripetuti tornanti, contro il legame materno:
“Ma io che c’entro con questa donna? Che
cos’ho da spartire con queste carni dalle quali sono uscito e dalle quali tutto
mi separa”. La demolizione, all’apparenza, del legame parentale ritenuto più
sacro, la maternità. Eretica per l’epoca, l’epoca contemporanea, femminista a occhi
chiusi. Ma forse, inconsciamente?, un atto d’insubordinazione.
Questo è vero. Passati
i sessant’anni, come nota di se stesso, per accentuare il suo ruolo di vittima,
sessant’anni di insolenze e violenze materne, l’autore si lascia andare alla
liberazione mentale dell’età adulta. Non antifemminile, molte donne amate
ricorrono, zie, sorelle, moglie. Cioè, non misogino, ma contro il potere che la
donna può esercitare, nefasto, in quanto madre. A cui viene opposta la figura paterna.
Di un padre in là con gli anni e non affettuoso, non smanceroso, ma attento, e un
porto sicuro per i ragazzi - commercialista di giorno, con sudio centrale e importante,
cultore di libri rari con cui passa le serate solitarie. Un Filottete, l’autore
decide da ultimo. Fratello maggiore, discreto, di un eroe di guerra, un militare
medaglia d’oro nella guerra contro l’occupazione tedesca, per avere immolato nel
giugno 1944 “la sua purissima giovinezza alla patria risorgente” – insomma un
eroe della Resistenza, anche se quella militare non si riconosce. Un padre
“altoborghese, cresciuto in condizione agiata”, con barca, seppure in condivisione,
“con curiosità intellettuali e gusto per l’arte” – “non è conformista, è
indulgente verso le debolezze, quelle degli altri più ancora delle proprie. Non
sa condannare….”. Un padre che l’autore ritroverà negli zii e cugini, anche loro
altoborghesi, a Milano.
Ma, poi, anche
la madre vituperata non è da poco. Si è sposata incinta. Dopo due fidanzati
“calabresi”, uno intelligente e uno bello. Forse non ha nemmeno tradito il marito-padre,
di età doppia della sua. Con il quale invece ha fatto tre figli. “Assomiglia
all’attrice Lea Massari”, che non è poco. E insomma, “anche lei è stata
giovane, ed è andata a scuola facendo il classico in anni in cui non è facile
che una ragazza orfana di padre e di condizione umile vada al liceo”. Dove ha
studiato con profitto. Ha conoscenza squisita del latino, risolvendo al figlio,
e all’amico latinista con cui il figlio studia, qualche problemino d’interpretazione.
Di Filologia romanza usa dire “Filologia e romanzo”. Ma a “Filologia e romanzo”
ha preso 28, come il figlio scrittore, pur “tenendo «a panza annanze»”. Ed è capace
di trovare di molto napoletano le radici remote, greche e latine. “Le sono sempre
piaciute le lingue classiche, il greco e il latino. È affascinata dalle sopravvivenze
del greco e del latino nel napoletano”. Che non è da tutti rintracciare, specie
dai famosi verbi greci del Pechenino. Ha perfino fatto studi di pedagogia,
psicologia e teologia per affiancare la figlia maggiore negli studi e nella
professione - di insegnante di religione.
Se non che è
sboccata. La
madre non riesce a parlare se non al modo delle “vaiasse nel facciaffrunto”,
le popolane in piazza. Una madre beneventana, quindi un poco strega. “Sgherra” si definisce
– è sannita prima che beneventana. “In un paese in cui ogni famiglia ha il suo
soprannome, quelli del ramo di suo padre sono detti «sgherri»”, ingiuria
(“sgherri come guardie armate, milizie private, gente a cui non la si fa,
prepotenti”) che lei rivendica con orgoglio. Un concentrato del brutto: “Ne detesto
il qualunquismo, il razzismo, il classismo, l’egoismo”, si dice il narratore a
un certo punto, “l’opportunismo, il trasformismo, la mezza cultura peggiore
dell’ignoranza, il rancore, il coacervo di mali nazionali che lei incarna in
blocco, nessuno escluso, al punto da essermi convinto che se c’è una figura
simbolo degli orrori dell’Italia, una creatura di carne e ossa che tutti li racchiude,
questa è Angela, mia madre”. Che però è una persona, non una figura – e in
quanto figura non è tanto italiana quanto europea, asiatica (araba
sicuramente), latinoamericana, americana.
“La Talpa non
fa che cucinare, e non parla che di mangiare” - la “vaiassa” e “sgherra” è
detta in famiglia anche la Talpa. Quando non inveisce contro le “zoccole”. Cioè
contro le donne: ogni donna è una zoccola, ma specialmente le figlie. Lei e la
sua amica Carmela, un’altra che ama il turpiloquio, Franchini dice “the
last two of a vanishing people,come l’ultimo dei Mohicani”.
Con molte
annotazioni di costume, d’epoca. Del tipo: per i bambini “il rito crudele del
riposo pomeridiano”. O le conversazioni sotto l’ombrellone, in spiaggia - alle
diverse latitudini, a Formia piuttosto che a Scalea. È l’epoca, negli
anni dell’autore in famiglia, della “cucina con «tinello»”. Cioè della familiarità
obbligata, il “tinello”, adiacente alla cucina, fungendo da soggiorno, e le altre
stanze restando chiuse – contro la polvere, per il decoro, in attesa degli
ospiti che non si invitano mai. “Gli uomini appaiono sicuri di sé, convinti del
mondo immobile e gerarchico che hanno creato o accettato, e noi li odiamo, ma
le donne, molte di queste donne, sono pazze e noi non ce ne accorgiamo”.
La madre è
anche Napoli, i riti e miti che circuiscono la città, e stancano. Ripetutamente, in
ogni circostanza. Ed è il raffronto Nord-Sud perpetuo, anteleghista, per ogni
evento. Un modo d’essere o di dire in effetti diffuso, e stucchevole.
Ma, poi, Napoli
è celebrata indirettamente nel dialetto, di cui Franchini non si sa privare,
anzi fa un uso estensivo. La lettura si direbbe la più “napoletana” dopo
Basile, anche più di Eduardo o Di Giacomo - più “veracemente” napoletana.
Uno sbocco di
malumore? Non per duecento e più pagine - riscritte. Di un’opera che sa di “non
finito”. Non per mancanza di tempo o di voglia, o di progetto, ma per
l’incertezza dell’artista sull’ultimo tocco, dopo avere sbozzato il tronco con
colpi violenti di scalpello, con spazzolate invece dello stencil - il “non finito”
che dà più rilievo al soggetto e alla sua storia, anche se irrisolta.
Non un libello. Un lungo
epicedio piuttosto. Il tributo a una madre “senza tenerezza, la mia madre senza
grazia, la mia madre di rabbia e furia”. Angela, la madre, “ha
attraversato altre mie storie”, confida l’autore, “sempre con un’ombra negativa”,
tirata in campo “per esprimere qualche forma di disvalore”. Nel libro su Giancarlo
Siani, intitolato “L’abusivo”, come personificazione dell’“amoralità
familiare meridionale”, da Franchini appaiata all’immoralità, la violenza, la sopraffazione della “criminalità
organizzata”. Un collegamento che prospetta una énaurmité ubuesca alla
base del racconto. Dopo la constatazione: “Ma che ne ho saputo io di lei per tutti
gli anni della mia adolescenza e giovinezza
e della sua maturità”? In casa Franchini come in tutte le case, ognuno
lo sa: i genitori non sono più un problema “dopo”, in vita sono vittime dei figli,
che li hanno per impaccio, e della disattenzione necessaria: “Che ne sanno di
noi i nostri figli?” Malinconico: “Per lungo tempo non diamo vita”, i genitori,
“che a fortuite eclissi”.
Una trenodia doppia:
anche alla città, da emigrato senza nostos, senza ritorno. Malgrado anche
qui le maldicenze, un tributo alla lingua. Angela e la città confluiscono alla fine in Pino Daniele, “Napule è”.
Un
lavoro di “scrittura”, curata, di bulino, senza plot. Esito paradossale
per un editor così rinomato come Franchini – non è lui il “curatore
editoriale”, come si definisce, l’autore ombra, del best-seller del Millennio,
“Gomorra”?
Finisce con la giustificazione: “Ad amare come viene sono
buoni tutti, e anche chi ama senza essere riamato trova consolazione in questo
sacrificio, ma chi è incapace di risvegliare attorno a sé le forme minori
dell’amore conduce una vita aspra e non sa perché”. L’indulgenza prevale. L’effetto
alla lettura è gargantuesco, Franchini sembra essersi divertito a fare il Rabelais,
con eccessi linguistici e anche caratteriali, di aggettivazione, situazioni, deviazioni\digressioni,
rivolgimenti improvvisi. Attorno a un personaggio “odiosamato”, ma autonomo, a
tutto tondo – col tocco di “nonfinito”.
Antonio
Franchini, Il fuoco che ti porti dentro, Marsilio, pp.
223 € 18
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