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lunedì 17 giugno 2024

La scoperta dell’Olocausto, in bella copia - colpa dell'Europa

Sotto le spoglie di Austerlitz, una conoscenza occasionale che ritoma nelle pieghe della narrazione per alimentarla, biblico, storico, un po’ ingegnere, un po’ filosofo, uno studioso di architetture, dello “stile architettonico dell’era capitalistica”, nel fisico, nell’eloquio e nelle abitudini modellato su Wittgenstein, ma soprattutto narratore, a partire dalle grandi stazioni, di Anversa, di Londra, e dalle fortificazioni. Il nome gli viene dato dal direttore del liceo, perché quello della famiglia di adozione non è valido, non essendo stata l’adozione formalizzata giuridicamente. Ed è il nome vero, secondo Austerlitz, di Fred Astaire. Ma ricorre anche in un raccontino di Kafk, ricorda sempre Austerlitz, e nelle cronache - “il 28 giugno 1966 una certa Laura Austerlitz” rilascia “una testimonianza davanti a un giudice istruttore italiano circa i crimini perpetrati nel 1944 nella risiera di San Saba presso Trieste”. E forse è solo mediato dalla stazione della metro parigina nel quartiere della Salpétrière, l’ex manicmoio.
Sebald si fa narrare alcune curiosità. Ma soprattutto ricostruisce. Partendo dall’infanzia di bambino inviato in Gran Bretagna nel 1938 su un “treno dei bambini” che si organizzarono da Praga dopo l’occupazione tedesca. Mandato dai genitori, preoccupati da Hitler, e cresciuto nel Galles. Molto Austerlitz racconta dell’adozione e della famiglia adottiva, quindi dell’Inghilterra, nel lunghissimo dopoguerra. Nella seconda parte Austerlitz si collega all’Olocausto, raccontando la visita a Praga alla ricerca delle radici. Gli racconta tutto la vecchia bambinaia, amica della mamma: della mamma deportata, e del padre politico che nel 1938, quando la Cecoslovacchia fu invasa da Hitler, per evitare la prigione emigrò a Parigi (dove, Austerlitz ipotizza, fu rinchiuso in prigione come alieno allo scoppio della guerra, e poi deportato nei campi di sterminio in Europa orientale)
La scoperta si fa per gradi, e come occasionale. Il primo segno si manifesta al forte Breendonk, nelle pagine iniziali sulle fortificazioni, dove l’autore scoprirà poi che Jean Améry fu torturato, allo stesso modo di “un certo Gastone Novelli”, la cui storia è raccontata da Claude Simon in  “Le jardin des plantes” – dove emigra in Sud America, scrive il dizionario di una lingua che è tutta A, ritorna in patria, e dipinge furiosamente anche qui tutte A, “come un grido prolungato” – seguono tre righe di A in stampatello.
Una scrittura “tedesca”, assicurano i traduttori, puntigliosa, precisa, ma per una narrativa “all’inglese”, si direbbe – un viaggio alla Sterne: divagazioni, visioni, fantasmi, curiosità, aneddoti, e storie di quartieri, villaggi, epoche, scuole, eventi atmosferici, personaggi incontrati e memorie improvvise. Si divaga senza sosta. Con i viaggi degli uccelli migratori. In volo col Cessna sull’estuario del Tamigi, le luci di Canvey Island e Southend-on-Sea, la Piccardia, e al ritorno, visibili, il Cigno, Cassiopea, le Pleiadi  - le costellazioni. La difficoltà di scrivere.  Le passeggiate notturne nel West End (londinese). L’ospedale di Bedlam (manicomio). Il Nord-Est di Londra nel secondo Ottocento, rivoltato per costruire. E le stazioni naturalmente, le Grandi Stazioni, per la architetture, e per i vuoti. Londra quando si pattinava sul ghiaccio – non sul Tamigi, V. Woolf sbaglia in “Orlando”, ma sugli acquitrini del N-E, che “formavano un’unica lastra di ghiaccio per mesi e mesi”. La Nuova Biblioteca Nazionale di Parigi voluta da Mitterrand, per molte pagine.
Austerlitz è ubiquo come l’ebreo errante. Dopo il Galles è andato in Francia, poi in Inghilterra, dove ha comprato casa per 950 sterline, soltanto, e insegnato per trent’anni, e poi ad Anversa, dove l’autore ne fa la conoscenza, a Praga, a Parigi di nuovo, sulle orme del padre, e altrove – Dux (Casanova vecchio), e soprattutto Marienbad. Qui con un’avventura muliebre, una studiosa francese, Marie du Verneuil - ma sopaattuto si fa la storia delle terme.
Alla fine Austerlitz rilegge Balzac, “Il colonnelo Jabert”, che dopo anni riemerge con la memoria nitid della lunga quasi morte che ha vissuto, prigioniero in Germania. E ricorda di essersi formato, nell’inverno del 1959, sui sei volumi di Maxime du Camp, l’amico fraterno di Flaubert e suo compagno di viaggio in Oriente, “Paris, ses organes, ses fonctions, et sa vie dans la seconde moitié du XIXme siècle”. E qui tutto si lega: “Su quel terreno desolato fra l’area di smistamento della Gare d’Austerlitz e il Pont Tolbiac, su cui oggi sorge questa biblioteca (la nuova Biblioteca Nazionale, n.d.r.), c’era fra l’altro sino alla fine della guerra un grande deposito nel quale i Tedeschi ammassavano i beni sottratti nelle case degli Ebrei di Parigi”. Una memoria che svanisce? La Nuova Nazionale, “per il suo intero impianto nonché per un regolamento interno ai limiti dell’assurdo, tende a escludere il lettore, quasi un potenziale nemico”, personificazione  del bisogno sempre più pressante di farla finita con la memoria. La Nuova Biblioteca finisce come le altre fortezze, inutili, se non come luoghi di torture e assassinii di massa.
Un periodare disteso, lungo, da mezza a una pagina – qui una frase è particolarmente distesa, dalla p. 252 per altre nove, sette e mezza di testo non contando le illustrazioni. Non è un flusso di memoria, sono ricostruzioni episodiche, scandite dagli incontri occasionali dell’autore con Austerlitz, ma scritte come un unico, anche interminato, flusso narrativo. Con l’ortografia ma senza scansione: niente accapo, niente capitoli, frasi lunghe, alla Thomas Bernhard, ma sempre scandite in maniera leggibile da una scrittura compatta, come da blocco solido, per quasi quattrocento pagine. Una forma lieve, quasi ironica, di fa rivivere la persecuzione, a uno sbandato, un senza nome che va acquisendo identità a mano a mano che l’autore gliela crea, cresciuto gallese ma senza legami effettivi, che poi si scopre vittima della tragedia e non ne fa una tragedia.
Sebald – questo si sa poco di lui ma ne è il trademark - non apprezzava il corso della letteratura tedesca post-bellica, Grass e Böll, della Colpa, della ricostruzione ex nihilo. Più propenso, come in modo più volgare aveva fatto il drammaturgo Hochhuth con “Il vicario”, a vedere anche le colpe d’altri, dell’epoca, di una certa modernità – della “tecnica” direbbe Heidegger- e della storia europea. In una conferenza molto citata, “Auf ungehörige dunnem Eis”, sul filo sconveniente del rasoio (questo è il titolo che l’editore ha voluto per la raccolta postuma dei suoi saggi, 1971-2001, pubblicata nel 2011), spiega: “Vedo la catastrofe causata dai Tedeschi, per quanto terribile, per nulla come un evento singolare – si è sviluppata con una certa logica dalla storia europea. Per lo stesso motivo, si è consumata nella storia europea” Qui se lo fa dire da Austerlitz: il popolo di Hitler fu “mosso dall’entusiasmo per il riscatto nazionale”, dopo la lunga fame.
L’Olocausto di Sebald è parte della modernità crudele, che s’inventa forme nuove di guerra e persecuzione. Senza speciale colpa dei tedeschi – o allora dei tedeschi con i francesi (la morte del padre di Austerlitz) e con i cechi (l’internamento della madre). Pubblicato nel 2001, subito dopo la morte (e poco dopo in traduzione da  Adelphi), il racconto è ampiamente visto dalla critica tedesca come un omaggio di Sebald a Thomas Bernhard – come un coming out, dice un critico, di “allievo letterario” di Bernhard: anche lui contestatore universale, malgrado la bonomia.
Il campo che Austerlitz nella sua ricerca visita e descrive non è del tipo Auschwitz. È Terezín, o Theresienstadt, a un’ora da Praga. Creato per ebrei facoltosi (“proprietari di industrie e manifatture, avvocati e medici, rabbini e professori universitari, cantanti e compositori, direttori di banca, commercianti, stenotipiste casalinghe, agricoltori, operai e milionari”), nei primi anni in attesa di espatrio, una cittadina ghetto, non un campo di lavoro, senza forni crematori, con case invece di baracche, nel 1944 rivestita da città-giardino, per una visita della Croce Rossa, due funzionari danesi e uno svizzero, fatta immortalare in un documentario, montato con una colonna sonora di motivi ebraici, e siamo già a marzo del 1945 – ma non c’è segno di follia teutonica.
Con molte foto come spesso nei libri di Sebald. Qui specialmente “narrative”, evocative – impaginate anche accuratamente, legate al testo.
Un tour de force, per l’autore che ne esce vittorioso, ma anche per il lettore.
W. G. Sebald, Austerlitz
, Adelphi, pp. 315 € 13

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