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La scoperta dell’Olocausto, in bella copia - colpa dell'Europa
Sotto le spoglie di Austerlitz, una conoscenza occasionale che ritoma nelle
pieghe della narrazione per alimentarla, biblico, storico, un po’ ingegnere, un
po’ filosofo, uno studioso di architetture, dello “stile architettonico dell’era
capitalistica”, nel fisico, nell’eloquio e nelle abitudini modellato su Wittgenstein,
ma soprattutto narratore, a partire dalle grandi stazioni, di Anversa, di Londra,
e dalle fortificazioni. Il nome gli viene dato dal direttore del liceo, perché
quello della famiglia di adozione non è valido, non essendo stata l’adozione formalizzata
giuridicamente. Ed è il nome vero, secondo Austerlitz, di Fred Astaire. Ma
ricorre anche in un raccontino di Kafk, ricorda sempre Austerlitz, e nelle
cronache - “il 28 giugno 1966 una certa Laura Austerlitz” rilascia “una
testimonianza davanti a un giudice istruttore italiano circa i crimini perpetrati
nel 1944 nella risiera di San Saba presso Trieste”. E forse è solo mediato dalla
stazione della metro parigina nel quartiere della Salpétrière, l’ex manicmoio.
Sebald si fa narrare alcune curiosità. Ma soprattutto ricostruisce. Partendo
dall’infanzia di bambino inviato in Gran Bretagna nel 1938 su un “treno dei
bambini” che si organizzarono da Praga dopo l’occupazione tedesca. Mandato dai
genitori, preoccupati da Hitler, e cresciuto nel Galles. Molto Austerlitz
racconta dell’adozione e della famiglia adottiva, quindi dell’Inghilterra, nel
lunghissimo dopoguerra. Nella seconda parte Austerlitz si collega all’Olocausto,
raccontando la visita a Praga alla ricerca delle radici. Gli racconta tutto la vecchia
bambinaia, amica della mamma: della mamma deportata, e del padre politico che
nel 1938, quando la Cecoslovacchia fu invasa da Hitler, per evitare la prigione
emigrò a Parigi (dove, Austerlitz ipotizza, fu rinchiuso in prigione come alieno
allo scoppio della guerra, e poi deportato nei campi di sterminio in Europa
orientale)
La scoperta si fa per gradi, e come occasionale. Il primo segno si manifesta
al forte Breendonk, nelle pagine iniziali sulle fortificazioni, dove l’autore
scoprirà poi che Jean Améry fu torturato, allo stesso modo di “un certo Gastone
Novelli”, la cui storia è raccontata da Claude Simon in “Le jardin des plantes” – dove emigra in Sud
America, scrive il dizionario di una lingua che è tutta A, ritorna in patria, e
dipinge furiosamente anche qui tutte A, “come un grido prolungato” – seguono tre
righe di A in stampatello.
Una scrittura “tedesca”, assicurano i traduttori, puntigliosa, precisa, ma
per una narrativa “all’inglese”, si direbbe – un viaggio alla Sterne: divagazioni,
visioni, fantasmi, curiosità, aneddoti, e storie di quartieri, villaggi, epoche,
scuole, eventi atmosferici, personaggi incontrati e memorie improvvise. Si
divaga senza sosta. Con i viaggi degli uccelli migratori. In volo col Cessna
sull’estuario del Tamigi, le luci di Canvey Island e Southend-on-Sea, la
Piccardia, e al ritorno, visibili, il Cigno, Cassiopea, le Pleiadi - le costellazioni. La difficoltà di scrivere. Le passeggiate notturne nel West End
(londinese). L’ospedale di Bedlam (manicomio). Il Nord-Est di Londra nel
secondo Ottocento, rivoltato per costruire. E le stazioni naturalmente, le Grandi
Stazioni, per la architetture, e per i vuoti. Londra quando si pattinava sul
ghiaccio – non sul Tamigi, V. Woolf sbaglia in “Orlando”, ma sugli acquitrini del N-E,
che “formavano un’unica lastra di ghiaccio per mesi e mesi”. La Nuova Biblioteca
Nazionale di Parigi voluta da Mitterrand, per molte pagine.
Austerlitz è ubiquo come l’ebreo errante. Dopo il Galles è andato in
Francia, poi in Inghilterra, dove ha comprato casa per 950 sterline, soltanto,
e insegnato per trent’anni, e poi ad Anversa, dove l’autore ne fa la
conoscenza, a Praga, a Parigi di nuovo, sulle orme del padre, e altrove – Dux
(Casanova vecchio), e soprattutto Marienbad. Qui con un’avventura muliebre, una
studiosa francese, Marie du Verneuil - ma sopaattuto si fa la storia delle terme.
Alla fine Austerlitz rilegge Balzac, “Il colonnelo Jabert”, che dopo anni
riemerge con la memoria nitid della lunga quasi morte che ha vissuto,
prigioniero in Germania. E ricorda di essersi formato, nell’inverno del 1959,
sui sei volumi di Maxime du Camp, l’amico fraterno di Flaubert e suo compagno
di viaggio in Oriente, “Paris, ses organes, ses fonctions, et sa vie dans la
seconde moitié du XIXme siècle”. E qui tutto si lega: “Su quel terreno desolato
fra l’area di smistamento della Gare d’Austerlitz e il Pont Tolbiac, su cui
oggi sorge questa biblioteca (la nuova Biblioteca Nazionale, n.d.r.), c’era fra
l’altro sino alla fine della guerra un grande deposito nel quale i Tedeschi
ammassavano i beni sottratti nelle case degli Ebrei di Parigi”. Una memoria che
svanisce? La Nuova Nazionale, “per il suo intero impianto nonché per un
regolamento interno ai limiti dell’assurdo, tende a escludere il lettore, quasi
un potenziale nemico”, personificazione
del bisogno sempre più pressante di farla finita con la memoria. La Nuova
Biblioteca finisce come le altre fortezze, inutili, se non come luoghi di
torture e assassinii di massa.
Un periodare disteso, lungo, da mezza a una pagina – qui una frase è
particolarmente distesa, dalla p. 252 per altre nove, sette e mezza di testo non
contando le illustrazioni. Non è un flusso di memoria, sono ricostruzioni episodiche,
scandite dagli incontri occasionali dell’autore con Austerlitz, ma scritte come
un unico, anche interminato, flusso narrativo. Con l’ortografia ma senza
scansione: niente accapo, niente capitoli, frasi lunghe, alla Thomas Bernhard, ma sempre scandite in
maniera leggibile da una scrittura compatta, come da blocco solido, per quasi
quattrocento pagine. Una forma lieve, quasi ironica, di fa rivivere la persecuzione,
a uno sbandato, un senza nome che va acquisendo identità a mano a mano che l’autore
gliela crea, cresciuto gallese ma senza legami effettivi, che poi si scopre
vittima della tragedia e non ne fa una tragedia.
Sebald – questo si sa poco di lui ma ne è il trademark - non
apprezzava il corso della letteratura tedesca post-bellica, Grass e Böll, della
Colpa, della ricostruzione ex nihilo. Più propenso, come in modo più volgare
aveva fatto il drammaturgo Hochhuth con “Il vicario”, a vedere anche le colpe
d’altri, dell’epoca, di una certa modernità – della “tecnica” direbbe Heidegger- e della storia europea.
In una conferenza molto citata, “Auf ungehörige dunnem Eis”, sul filo sconveniente
del rasoio (questo è il titolo che l’editore ha voluto per la raccolta postuma
dei suoi saggi, 1971-2001, pubblicata nel 2011), spiega: “Vedo la catastrofe
causata dai Tedeschi, per quanto terribile, per nulla come un evento singolare –
si è sviluppata con una certa logica dalla storia europea. Per lo stesso
motivo, si è consumata nella storia europea” Qui se lo fa dire da Austerlitz: il
popolo di Hitler fu “mosso dall’entusiasmo per il riscatto nazionale”, dopo la
lunga fame.
L’Olocausto
di Sebald è parte della modernità crudele, che s’inventa forme nuove di guerra
e persecuzione. Senza speciale colpa dei tedeschi – o allora dei tedeschi con i
francesi (la morte del padre di Austerlitz) e con i cechi (l’internamento della
madre). Pubblicato nel 2001, subito dopo la morte (e poco dopo in traduzione da Adelphi),
il racconto è ampiamente visto dalla critica tedesca come un omaggio di Sebald
a Thomas Bernhard – come un coming out, dice un critico, di “allievo letterario”
di Bernhard: anche lui contestatore universale, malgrado la bonomia.
Il
campo che Austerlitz nella sua ricerca visita e descrive non è del tipo Auschwitz.
È Terezín, o Theresienstadt, a un’ora da Praga. Creato per ebrei facoltosi (“proprietari
di industrie e manifatture, avvocati e medici, rabbini e professori
universitari, cantanti e compositori, direttori di banca, commercianti,
stenotipiste casalinghe, agricoltori, operai e milionari”), nei primi anni in attesa
di espatrio, una cittadina ghetto, non un campo di lavoro, senza forni crematori,
con case invece di baracche, nel 1944 rivestita da città-giardino, per una
visita della Croce Rossa, due funzionari danesi e uno svizzero, fatta immortalare
in un documentario, montato con una colonna sonora di motivi ebraici, e siamo
già a marzo del 1945 – ma non c’è segno di follia teutonica.
Con molte foto come spesso nei libri di Sebald. Qui specialmente “narrative”,
evocative – impaginate anche accuratamente, legate al testo.
Un tour de force, per l’autore che ne esce vittorioso, ma anche per
il lettore.
W. G. Sebald, Austerlitz, Adelphi, pp. 315 € 13
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