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L’inefficienza militare della Germania
La macchina bellica tedesca è stata sempre
inefficiente nei momenti decisivi. Nelle rievocazioni che si leggono dello
sbarco di Normandia, come nei film più iconici, “Il giorno più lungo” di
Zanuck, 1962, e “Salvate il soldato Ryan” di Spielberg, 1998, il successo dello
sbarco fu un colpo di fortuna. Il tempo era orribile, la contraerea tedesca
inensa, sbandati i paracadutisti, che dovevano aggredire il fronte alle spalle,
il fronte dello sbarco troppo esteso, 80 km., su coste di carateristiche fisiche
motto diverse.
La verità è che si vuole, ancora, la Germania
invincibile. Il retropensiero è questo – se lo sbarco fu un successo lo fu
quindi per caso. Rapida e invincibile, anche la Germania, inarrestabile. Mentre
perse malamente – la perse la Germania prima dell’Austria-Ungheria- la prima
guerra mondiale. Nella seconda vinse facile contro la Polonia perché la Polonia
non si poté difendere, attaccata in contemporanea alle spalle da Stalin. E
contro la Francia, che non combatté – chi dei tedeschi ne ha lasciato memoria è
di stupefazione. Ma fallì a Leningrado e Stalingrado, a Alamein, trascinando
nella sconfitta gli italiani, che invece la parte loro l’avevano vinta, e subì inerte
lo sbarco in Sicilia prima che in Normandia – gli sbarchi non sono fulminei,
vanno preparati, sono noti in anticipo. Subì perfino la Resistenza italiana,
poco armata e molto divisa, a Roma e alla Linea Gotica – le ripetute stragi,
senza nessun senso militare, lo testimoniano.
È successo alla Germania fino al
1944 come già alla Prussia, che si era circondata di un’aura di invincibilità
mentre alternava le vittorie a sconfitte che ne minacciavano l’esistenza – e tremava,
al modo del re di Prussia per eccellenza, Federico il Grande, nel ritratto di
Thomas Mann. Si prenda il più celebrato, tuttora, dei grandi “prussiani”, il
maresciallo Rommel. Il giorno dello sbarco Rommel lasciò la Normandia per
festeggiare a casa la moglie nel suo onomastico - Erwin Rommel era una volpe,
andava quindi di corsa: in altra cultura, meno indulgente, si direbbe che
scappava, non sapendo come tenere il fronte Nord dopo aver perduto il
Mediterraneo.
E la fissa degli ostaggi. Avanzando
gli Alleati, i tedeschi abbandonavano le fortificazioni ma non i prigionieri. I
trentamila moribondi di Auschwitz, i dodicimila di Gross-Rosen, infangati nella
neve alta, i trentamila residui di Dora-Mittelbau, per i quali il trasporto fu
organizzato a metà aprile verso Bergen-Belsen, dieci giorni prima della fine. E
in ritirata sempre si fermavano per organizzare un plotone d’esecuzione:
assemblavano una diecina d’uomini inermi, a Forte Bravetta, alla Storta, e si
sparavano le ultime cartucce, per dispetto, per paura.
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