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A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (565)
Giuseppe Leuzzi
Se il
problema del Sud è l’Italia
La Repubblica di Venezia aveva ben un millennio di
vita, prospera, estesa a buona parte delle Venezie di oggi, e della Lombardia.
E quando ultimamente le terre veneziane di terraferma, come Milano e la
Lombardia tutta, erano passate a Vienna, si mantenevano ugualmente prospere, e
ben governate. Città-Stato marinare avevano prosperato a lungo nel Mediterraneo,
Pisa, Genova, anche Amalfi. Città-Stato repubblicane avevano prosperato ovunque, attorno
all’Appennino tosco-emiliano. Per poi trasformarsi in principati, un po’
dispotici ma ben locali, attenti cioè, e coltivati, in senso proprio, della
vita nei campi, e figurato, della vita intellettuale e artistica. ll Piemonte
bene o male si governava con una dinastia quasi millenaria. La signoria in
Toscana faceva la storia d’Italia e di quella che sarà la cultura “occidentale”.
Bologna e Ancona si governavano bene anche sotto il papa. E Roma, naturamente, che
si privilegiava di tante ricche rendite ecclesiastiche – metteva in qualche
modo a frutto le rendite.
L’unità si è fatta per empito rivoluzionario. Non si
pone bene mente a questo: l’impresa di Garibaldi ha cancellato una differenza
storica. Che un economista dello sviluppo direbbe abissale. Non di lingua e nemmeno
di cultura, patrioti meridionali si trovavano a loro agio a Torino, o a
Firenze. E a Torino e Firenze nessuno pensava a loro in termini di diversi. Ma
il Sud era diverso, per storia e per
cultura. Materiale: per assetti sociali e produttivi. Per assetti istituzionali,
con una corona che dopo cinque secoli di dominio, a partire dagli aragonesi,
sapeva poco o nulla del suo regno, e non se ne curava.
Questa è la verità dell’unità: uno sviluppo rivoluzionario,
volontaristico, che colmava una differenza abissale fra il Centro-Nord e il Sud
– compresa la Sicilia, che, seppure autonoma di fatto da Napoli, si adagiava su
una nobiltà putrefatta.
La differenza è rimasta, sotto forma di questione meridionale.
Per la quale nessuna rivoluzione è stata risolutiva – ma di fatto nessuna rivoluzione
è stata mai messa in atto, e nemmeno prospettata. L’ultima “riforma”, la più generosa, la Cassa
per il Mezzogiorno, è stata di fatto concepita (sic!) e realizzata più per la
grande impresa (che in Italia, a parte le allora Montecatini e Fiat, era
pubblica) che per i bisogni di integrazione del Mezzogiorno nel processo di
sviluppo - nella storia dell’Italia, del maincurrent.
La Lega è intervenuta per risabilire le distanze – la
Lega Lombardo-Veneta, è utile ricordarlo: ognuno per sé. Arguendo anche: ognuno
per sé è meglio per tutti. L’unità “patriottica” – rivoluzionaria – si è, si
era già, di fatto frantumata nelle piccole patrie. Con l’autonomia differenziata
siamo al culmine di un processo di disintegrazione già lungo – a opera della
destra politica come della sinistra, è bene essere precisi (le autonomie differenziate germinano dalla riforma del 2001 del titolo V della costituzione). Una disintegrazione
che può andare anche, in ipotesi, a beneficio del Sud, se non altro perché lo
mette di fronte a una mangiatoia vuota – lo era anche prima, poca roba, ora lo
è per legge.
Né è illegittima l’osservazione che l’autonomia
differenziata era già il privilegio di due regioni meridionali, la Sicilia e la
Sardegna, dotata anche di fondi statali speciali. Ma non si può non rilevare
che tutto questo avviene a compimento di quarant’anni di disprezzo non celato
lombardo-veneto per l’Italia al di sotto dell’Appennino, come diceva il rappresentante
più nobile del leghismo, il professor Miglio - il leghismo salviniano del
2018-2029, che furbescamente capitalizzò il vuoto di offerta politica agli italiani
che da decenni disperatamente votano a destra, specie al Sud, non fa testo.
La realtà è questa: che l’autonomia differenziata può
agire bene oppure male – non ci sono leggi migliori, in essere o in
prospettiva. Ma è proposta da un partito (mediocremente) razzista. Nelle
persone di un dentista milanese senza altra storia, che faceva il signorotto nella
disprezzata Roma, con villino a due piani e giardino, grazie alle vituperate
prebende parlamentari. E di un pr di discoteche.
È un’Italia ora un po’ povera, là dove era ricca. Nonché controrivoluzionaria - tignosa, rancorosa, là dove era entusiasta e coinvolgente. Era
il tema di “Fuori l’Italia dal Sud” trent’anni fa, che pure ebbe un (modesto)
successo di stima, e la cosa non è migliorata.
Dietro
“Rosarno”
Dopo l’avventurata scoperta - su denuncia di parte e non
degli Uffici del lavoro, su denuncia cioè di ditte concorrenti - del lavoro nero
a ritmi schiavistici di immigrati non residenti e anzi “non esistenti” nella
confezione dell’alta sartoria attorno a Milano, si “scopre” lavoro nero un po’
dappertutto ora al Nord. “la Repubblica” si scandalizza per “gli schiavi del
Barolo pagati 5 euro l’ora” - con “bastonate se protestiamo” - alloggiati “a
due passi dalla stazione di Alba”, dove “uno
stimato medico affitta un tugurio per 500 euro a brandina a 17 lavoratori
stagionali”. A Verona si scoprono per caso 33 braccianti “ridotti in schiavitù”.
A Sabaudia “gli schiavi sikh a due passi dal mare dei vip”, a 4 euro l’ora –
siamo negli ambienti dove Satman Singh è morto un mese fa per un braccio
mozzato nella fienagione, buttato in una cassetta della verdura, mentre veniva
lasciato a dissanguarsi per strada. I caporali sikh si fano pagare 17 mila euro
per un ingresso “clandestino”, che sono poi scontati sulla paghetta giornaliera.
Eccetera.
Le scoperte si succedono. Senza dire che sono le
ultime di una serie, ma non importa: il fatto è diffuso, e noto. Compreso il
caporalato, locale e immigrato, anch’esso. Cosa cambia? Che il lavoro nero non
è “Rosarno”, catapecchie comprese.
Si dice, si diceva, “Rosarno” per coprire il resto? Di
fatto è così. Rosarno si è distinta perché gli “stagionali” erano
sindacalizzati. E vittime, nel caso, di una coltura in disarmo, se non
moribonda, dopo l’abbattimento di tre quarti degli agrumeti per il porto di
Gioia Tauro e la contigua area di servizio, senza più quindi i collaterali per
finanziare il rinnovo e il cambiamento delle specialità, in un mercato che
premiava le produzioni anticipate e quelle ritardate - il che significa il
rinnovo delle piantagioni, con cinque-sei anni di mancata produzione.
Il Sud è tropo spesso il cache-sex di colpe e malaffare
nazionali – mi assolvo col Sud è la chiave del perdutate successo leghista nel
Veneto e in mezza Lombardia.
Sudismi\sadismi:
l’odio-di-sé meridionale
È mancata quest’anno la solita pagina del “Corriere della
sera” contro i 100 alla maturità in Calabria. A firma Gian Antonio Stella.
Il motivo è che la maturità quest’anno è andata male
nelle terre di Stella – e non a opera di commissari meridionali (le commissioni
d’esame sono ora studiate per evitare i meridionali al Nord)? A Pordenone e
dintorni, per esempio, il 77 per cento dei maturandi dei licei scientifici sono
stati bocciati a Matematica, allo scritto obbligatorio. Ma no, non sarà questo
- nella provincia di Udine i risultati magari saranno stati migliori (il
“Corriere della sera a ogni buon conto ha evitato di dare la curiosa notizia di
Pordenone e provincia). È che Stella scrive, solitamente contro Calabria e Sicilia,
strana specializzazione, su input di informatori locali. Giornalisti o aspiranti.
I quali sanno che Stella ne farà scempio. Lo fanno per odio-di-sé – solo in
Calabria non si sa la matematica (ma no, vincono tutti i concorsi internazionali),
o in Sicilia? Per “una buona parola”, la famosa raccomandazione. Si è rotto il relais?
L’uninominale
di Sgarbi
L’uninominale secco, inglese, si fa finta
che sia la democrazia integrale. Non va quindi bene con la concezione italiana
della politica, trasformista (libertà di coscienza). Si è tentato di
introdurre l’uninominale ma è stato
subito sabotato.
Anche perché è stato un uninominale per
modo di dire. Non stagionato – un sistema elettorale ha bisogno di rodaggio. Con
candidature non locali, legate alla circoscrizione (constituency, il termine inglese è più appropriato). Con percentuali
di recupero raccogliticce, in sede regionale e nazionale. Non un uninominale
secco. E senza un rapporto duraturo tra eletto e territorio, che invece
è fertile.
E tuttavia è un sistema con molte virtù. Il
deputato assenteista per antonomasia, Vittorio Sgarbi, eletto alla Camera nel collegio uninominale della Locride in
Calabria nel 1994, con i voti che gli aveva procurato Franco Corbelli, di Gustizia Giusta, ci andava di rado, e per visite brevi, ma ha lasciato
impronte durature. A Gerace, a Ardore, a Serra San Bruno. Perfino fuori della
circoscrizione, a Mileto. Quando ci è tornato per la Europee dappertutto è stato salutato come se fosse di casa – non è poi andato a Strasburgo, ma per
alchimie interne al suo ultimo partito, Fratelli d’Italia.
L’antimafia
vira a destra
La Procura di
Caltanissetta continua le indagini sul dossier “Mafia e appalti”, avviato
attorno al 1990 da Giovanni Falcone, e incrimina uno dei più giovani sostituti procuratori
(allora, oggi in pensione), Gioacchino Natoli. In concorso con un capitano,
allora, della Guardia di Finanza, Stefano Screpanti, e con l’allora Procuratore
capo di Palermo Pietro Giammanco.
Giammanco, ora morto, è
quasi universalmente ritenuto una sorta di capomafia a palazzo di Giustizia. Cosa
non vera – non possibile – ma così è. Natoli è invece difeso dai falconiani, in
particolare dalla sorella del magistrato, Maria – “ne conosco la rettitudine e
l’amore per le istituzioni”.
La Procura di Caltanissetta
non ha documenti né pentiti a sostegno. Si basa sull’inchiesta avviata nel 1991
dal procuratore di Massa Carrara Augusto Lama (poi attivo a Massa come giudice
tributario e del lavoro, da qualche mese in pensione), con l’ausilio del maresciallo
della Finanza Piero Franco Angeloni (che l’esperienza poi immortalò nel libro
“Gli anni bui della Repubblica”, contro Claudio Martelli ministro della
Giustizia), sulle infiltrazioni mafiose nelle cave di marmo acquisite allora dalla
Ferruzzi-Gardini. Inchiesta a cui Natoli a Palermo non avrebbe dato il dovuto
seguito.
Natoli non ha risposto
alle contestazioni della Procura di Caltanissetta, confluite a Carrara in massa
– si è riservato di leggere gli atti d’accusa. Ma subito la sinistra lo ha difeso
– Pd e 5 Stelle in Commissione antimafia. I parlamentari del centrodestra si attengono
alla “ricerca legittima della verità”.
La giustizia, come si sa, è apolitica.
leuzzi@antiit.eu
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