Giuseppe Leuzzi
Il giudice Luca Tescaroli si è insediato da pochi
giorni a capo della Procura di Prato e subito ci scopre la mafia. Quella
cinese, delle “triadi”. Impegnata in una “guerra delle grucce”, gli
appendiabiti di plastica – di filo di ferro per le lavanderie. La mafia è il dio dei giudici, è in ogni luogo.
A Firenze, dove era
Procuratore Antimafia, il giudice Tescaroli lascia aperto il caso delle stragi
del 1993 – a Firenze in via dei Georgofili. Aspettava sempre testimoni e prove
che i mandanti sono stati Berlusconi e Dell’Utri. Questa è un’altra mafia, o è
la stessa?
Si indaga per mafia anche
il giudice Pignatone, quello che la mafia aveva scoperto anche a Roma. Per avere
insabbiato trent’anni fa le indagini su “mafia e appalti”, il dossier aperto da
De Donno e Falcone, su cui poi continuava a lavorare Borsellino. È incolpato insieme
con l’allora sostituto Gioacchino Natoli e col generale della Finanza
Screpanti, all’epoca capitano. L’accusa è di favoreggiamento - molto più che il
solito concorso esterno che non si nega a nessuno: i tre avrebbero avvisato i
mafiosi Buscemi e Bonura di indagini sui loro rapporti con la Ferruzzi
di Raul Gardini, disponendo la distruzione di intercettazioni rilevanti, e l’archiviazione
di fatti penalmente rilevanti. La mafia dei giudici però non sarebbe una
novità.
“Sette in italiano, otto in
aritmetica e nove in educazione civica: la pagella di Totò Riina alla terza
elementare, a 22 anni, nel 1952. Il voto che più colpisce è il 9 in educazione
morale e civica. Il maestro usava un tono reverenziale nei confronti di Riina,
che già si atteggiava a boss”. A volte, la predestinazione.
Il recinto della memoria
Celebra Carlo
Michelstaedter, nella sua rubrica sul settimanale femminile del “Corriere della
sera”, Vittorio Sgarbi, celebrando anche Antonio Piromalli: “Coltivavo una vera
passione per la sua opera”, di Michelstaedter, “grazie agli studi anticipatori
di Antonio Piromalli, che per primo ne scrisse e che era di casa a Ferrara per
il suo stretto rapporto con mio zio, Bruno Cavallini, alle origini della mia
formazione”.
Piromalli, oggi dimenticato,
è stato un letterato di variegato indirizzo, e di varie occupazioni (insegnante
di liceo, preside, professore universitario) in varie città su e giù per l’Italia,
perlopiù a Nord: Torino, Ferrara appunto, Bologna, Urbino. Nato a Maropati, nella piana di Gioia Tauro, al paese restando legato per affetti familiari.
Finendo anche per morirvi – non proprio a Maropati, lì accanto, a Polistena:
stroncato da infarto mentre si accingeva a presentare un romanzo di Fortunato
Seminara, “Il viaggio”, da lui esumato postumo – con Seminara, anche lui di Maropati,
è ora vicino di tomba nel cimitero del paese, in un “Recinto della Memoria”.
Callido Sud
La giudice catanese Maria
Fascetto Civillo, condannata per tentata concussione e imputata di avere usato
la qualità di magistrato “al fine di conseguire ingiusti vantaggi”, va al Csm
dalla consigliera quasi conterranea e “amica” di partito (democristiani di
Fratelli d’Italia), l’avvocata Rosanna Natoli, a chiedere consiglio su come
comportarsi. Alla sezione disciplinare dello stesso Csm, di cui Natoli fa
parte, che deve valutare gli “ingiusti vantaggi”. Le due usano anche il comune
dialetto: quando Fascetto Civillo dice di voler denunciare tutti i suoi “colleghi
invidiosi” a Catania, “io sono disposta a tutto, dottoressa”, l’avvocata
consigliera Csm ribatte: “Sì, lei lo fa, ma noi ci facemu i pernacchi”,
per dire non otteniamo nulla, accuse senza prove.
Martedì 16 luglio, quando la
sezione disciplinare del Csm si accinge a ritirarsi in camera di consiglio per
decidere sulla revoca cauteare dalle funzioni, Fascetto Sivillo, racconterà
qualche giorno dopo Bianconi sul
“Corriere della sera”, “ha detto di dover riferire un fatto «grave» riguardante
la consigliera Natoli: ha raccontato l’incontro, e il suo avvocato Carlo
Taormina ha consegnato audio e trascrizione del dialogo”. Sconcerto. Al Csm, ma
non a Catania.
Non in Sicilia. Neppure nella
stessa Natoli, che si è limitata a lasciare la sezione disciplinare del Csm: il
saltafosso, il trainello, il trabocchetto del dialettismo di Camilleri
(o dialettalismo, il dialetto è altra cosa, di cui ora i “Quaderni
camilleriani”, già al 22mo numero, avviano uno studio “parola per parola”, alla ricerca del
meccanismo della”consapevole creazione del vigatese”), è parte del bagaglio culturale,
si direbbe morale, “superiore” dell’isola. Si dice – anche Sciascia – che sia l’amicizia
a “perdere” l’isola, e invece no, è piuttosto il contrario, l’inimicizia, il
sentirsi ostili a tutti, anche agli amici, specie agli amici. Da qui la
furbizia, che sempre fa aggio – sulla dirittura, e perfino sull’interesse
proprio. L’intelligenza in forma distruttiva. Non difensiva, aggressiva.
Papà, che in gioventù trovava
i modi più disparati per spendere i soldi di suo padre, di cui si riteneva creditore
perché lo aveva portato con sé in campagna dopo la sesta, quindi ai dodici anni,
“ogni mattina alle cinque”, invece di lasciarlo agli studi e ai baciamano come suo
fratello e le sorelle, volentieri anticipava dei soldi a chi glieli chiedeva
per un bisogno urgente. O per comprarsi il biglietto per l’Australia o il Canada.
O anticipare 400 lire, in società con l’apicultore, per comprare le arnie
verticali invece di quelle orizzontali. O garantire il carrettiere che vuole
passare, giustamente, al camioncino, e pagare qualche rata. Finché, presto, non
sentì dicerie malevole sul suo conto, come prestare a strozzo. Allora adottò la
frase: “Volentieri, come no, solo che adesso mi trovi in un momento di
difficoltà”. Solo uno degli emigrati usava scrivere ogni anno per Nataale per
ringraziare – la le ultime letere erano timbrate da un carcere.
L’esigenza di spendere riprese
papà negli anni 1950, quando per una quindicina d’anni finanziò la banda cittadina,
pagando un ottimo concertista, il maestro Perri, che la portò al livello di Fasano,
allora la banda più quotata, e perfino a esibirsi un paio di volte con i Metropolitani
di Roma, l‘eccellenza degli ottoni. Per non vedersi – ma ormai era morto –
nemmeno nominato, nemmeno per caso, nella storia che è stata fatta del complesso
bandistico “A. Rendano”.
Calabria non è Sicilia. Ma
sì per il linguaggio, per la comune matrice, latina, del dialetto. In latino
proprio la settimana del “trainello” al Csm il linguista Antonelli argomentava
su “7”, a proposito del termine “callido”, ritenuto di uso letterario, che nell’archivio
del “Corriere della sera” ne ha trovato invece, quando l’italiano era ancora
impastoiato, poche ricorrenze, “ma concentrate più nelle pagine di cronaca
giudiziaria che in quelle d’argomento letterario”. In latino, dove origina,
callido ricorre come avveduto, accorto, ma anche astuto, “abile a fare i propri
interessi, anche a discapito di quelli degli altri”.
È il segno - la “colpa” - di una società
disgregata. Postborghese senza mai essere stata borghese. Autodistruttiva. Per
invidia sociale. Sotto apparenze di legalità, progresso, intelligenza, cultura.
Si confronti, per esempio, il democristianesimo locale, che si ritrova nel Pd
come con Meloni, e già con Berlusconi, di parrocchia, così pieno di buone
parole e così individuale, familiare, distruttivo, col parrocchialismo fattivo della
Lombardia, del Veneto, del lavorerio. In Sicilia e anche in Calabria. Le
regioni dove l’unica borghesia che si è formata nella Repubblica è quella
mafiosa, che sempre si rigenera, della violenza. Della violenza illegale, a differenza
della violenza dell’invidia, ma non, evidentemente, altrettato distruttiva.
La vera ragione del
ritardo del Sud è stata, per un secolo e mezzo ormai, l’incapacità-impossibilità
di organizzarsi, di avere una borghesia, un ceto sociale che costruisce
piuttosto che distruggere il bene altrui. Di un senso di classe – si sarebbe
detto qualche anno fa. Ma alla sommatoria costruttivo, produttivo di un valore
aggiunto. Invece che distruttivo.
Cronache della
differenza: Napoli
La
capitana di una nave crociera saluta i suoi passeggeri allo sbarco a Napoli augurando
“una buona pizza!”, e raccomandando “niente gioielli, troppi borseggiatori”. Sdegno della città. Perché, i
borseggiatori non ci sono?
L’elogio di Montella allenatore
della Turchia agli Europei Leo Turrini chiude ricordandolo come “un tipo che viene
da Pomigliano d’Arco, patria della gloriosa Alfasud”. Il disegno fallito
dell’allora ministro delle Partecipazioni Statali De Michelis, perché faceva
ombra agli Agnelli – che cosa non si è fatto per “salvare” gli Agnelli
(Pomigliano poi Marchionne l’ha salvata malgrado la Fiat e resta ottimo sito
produttivo).
Pensare
la Nissan al Sud, che poi ha fatto grande la Renault. Le case d’auto giapponesi
rinvigorivano in quegli anni gli Stati americani del Sud, poveri e trascurati.
Riccardo Muti evoca
la nascita e gli studi a Napoli, con casa a Chiaia, via Cavallerizza 14, e
ricorda che quando ci è tornato qualche anno per curiosità, il portiere lo ha
salutato così: “Vi tengo innanzi agli occhi ogni giorno”. Bello. Fiorito?
Immaginifico? Sentimentale? Opportunista? Di tutto un o’.
Il nuovo allenatore
del Napoli Antonio Conte si presenta ai
tifosi parlando per due ore. Mah, non lo faceva nemmeno De Gaulle. Castro però sì. Napoli avrà un’anima cubana?
Conte, licenziato da un paio di squadre in Inghilterra,
viene assunto in pompa a Napoli. Per la presentazione si sceglie il Palazzo Reale.
E 400 giornalisti si accreditano, si dice da tutto il mondo ma perlopiù locali, per ascoltarlo - “il massimo
che consente l’affascinante location”. Sarà l’esagerazione pubblicitaria?
O non sarà il massimo della stupidità?
“Due uomini entrano armati e col viso coperto in spiaggia a
Torre Annunziata. Tempo di fare un giro fra i bagnanti del Lido Azzurro,
probabilmente alla ricerca di qualcuno, per poi uscire. Ma non prima di aver sparato due colpi, con i fucili a pompa che imbracciavano”.
La mafia si sa che è spietata. A Napoli è teatrale.
All’Europeo di calcio Calzona ha tenuto sotto scacco l’Inghilterra
di Bellingham, Kane, Fode per 95 minuti. Umiliato a Napoli, nello squadrone milionario, un allenatore tappabuchi, si è rifatto bello con la Slovacchia, ranking Uefa 45 – Inghilterra 3.
Per un calabrese a Napoli quello di Calzona era un esito scontato.
In tanti secoli, millenni, di Regno, quanti calabresi ha illustrato Napoli?
Campanella lo tenne prigioniero per 27 anni (Yourcenar se ne stupiva, più che
scandalizzarsi), san Francesco di Paola preferì salvarsi in Francia, Telesio
saltò sempre Napoli, stava meglio a Roma e a Venezia (fu solo ospite del duca Alfonso
Carafa, ma a Nocera). E così via, fino al rigetto del Procuratore Capo Cordova –
e anche l’attuale, Gratteri, comincia a dire “quanto mi manca la Calabria”.
leuzzi@antiit.eu
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