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Calvino comunista liberale
Un
primo tentativo (nell’ambito di un progetto più “completo”) di delineare una
filosofia dello scrittore. Che dalla filosofia però rifuggiva – aveva molte
curiosità filosofiche ma non sistemiche, non basiche (l’esistenza, i fini ultimi, eccetera).
E per quel poco che era o si sentiva ancorato a delle idee, era ancora quello
dell’illuminismo – post-adolescenziale. Fra i suoi tantissimi critici attenti, prediligeva Sciascia in quanto compagno su questo terreno. La prefazione alla riedizione 1960 in volume unico delle tre storie degli Antenati ha una mezza pagina che si può dire marxista, ma è un unicum, ed è anche liberal-conservatrice.
Nel 1978, quando debutta
su “la Repubblica”, sotto l’interrogativo “Sono stato stalinista anch’io?, dice
che “lo stalinismo si presentava come il punto d’arrivo del progetto
illuminista di sottomettere l’intero meccanismo della società al dominio
dell’intelletto” – per concludere: “Era invece la sconfitta più assoluta (e
forse ineluttabile) di questo progetto”. Ma la sua prima reazione alla delusione è stata giocosa, il barone Cosimo Piovasco di Rondò che si ribella al padre e sale su un albero.
Fineschi, un cultore della materia, battitore libero, è peraltro soprattutto
impegnato ad analizzare il rapporto tra intellettuali e partito Comunista negli
anni 1960. Dopo cioè l’onda d’urto dell’occupazione militare sovietica dell’Ungheria
e della scoperta, nella stessa Mosca, dello stalinismo. Come se il Pci fosse
marxista, prima e dopo del 1956 – o se lo stalinismo fosse fino ad allora incognito
Il tentativo di delineare una “filosofia” di Calvino è però non solo
curioso, ma anche per più aspetti (contro probabilmente le intenzioni del ricercatore)
illuminante. Calvino era un liberale. Aveva aderito al partito Comunista nel
momento in cui nel 1943 era andato in montagna. E subito poi nella collaborazione
all’“Unità”, estensione naturale dell’impegno libellista in guerra. Ma non partecipava
alla cellula Einaudi, non firmava manifesti, non scendeva in piazza. Ha scritto
molto ma senza mai nominare Marx. E al mondo pensava come pensa un liberale:
una palestra aperta a tutti.
Fineschi non lo dice ma questa conclusione è nelle cose che individua e
analizza. Da membro esimio del panel di cultori della materia che continuano
a curare la pubblicazione in italiano delle opere di Marx e Engels, potrebbe avere
pure lui individuato in Marx l’anima del liberale – fatta salva naturalmente l’ultima
esperienza, di capopartito. Non per nulla Einaudi rifà Marx nei Millenni facendolo presentare
e da un liberale. Lo è nello stile della scrittura, nelle “cose” che
analizza, e nel metodo. Alla dittatura del proletariato non ci credeva – il “Manifesto”
non è quello.
Grande borghese, non inconsapevole: snobbò
Eugène Sue, “piccolo borghese sentimentale, socialista della fantasia”,
candidato dai socialisti “per far piacere alle grisettes”, perché era liberale. Chiudendo il “Manifesto”, alla vigilia del ‘48,
offre un’alleanza ai borghesi, l’alleanza dei produttori, roba da Saint-Simon.
La “Neue Rheinische Zeitung”
non spiacque ai borghesi renani, il suo giornale, nell’intento che ritenevano
condiviso di sottrarsi al Congresso di Vienna di Metternich, che li aveva
annessi alla Prussia. Non si può legarlo al sovietismo – nemmeno nella
fase leninista. O fargli colpa di Stalin, che non lo realizzò ma l’affossò: la
rivoluzione che doveva eliminare lo Stato ribaltò nello Stato totalitario, per
primi liquidando i comunisti.
Roberto Fineschi, Italo Calvino e la
crisi del marxismo italiano negli anni Sessanta, Sinistra in rete, free online
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