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martedì 9 luglio 2024

Il mondo com'è (476)

astolfo


Vincenzo Bianco
– Trascurato in morte, anche dalle storie del Pci, fu uno dei massimi rappresentanti del partito Comunista a Mosca subito prima e durante la guerra, delegato di Togliatti al Comintern, l’organizzazione dei partiti comunisti nel mondo, dove era in confidenza col segretario Dimitrov – l’artefice con Togliatti nel 1935, prima delle ”purghe” staliniane, della politica dei Fronti Popolari, cioè dell’alleanza del partito Comunista con i partiti progressisti “borghesi”, nelle democrazie “borghesi”.  Ebbe fama nel 1945,  nome di battaglia “Vittorio”, o “colonnello Krieger”, delle formazioni partigiane comuniste, in qualità di plenipotenziario del Pci a Trieste. Filotitino, a favore dell’annessione di Trieste alla Jugoslavia. Ma non al corrente, si dirà successivamente, delle foibe: ne fu chiesto il processo, una volta conclusa la vicenda di Trieste a favore dell’Italia, ma non fu processato. 
A suo merito fu invece ascritto l’interessamento a Mosca a favore dei militari italiani dell’Armir, il corpo di spedizione in Russia, prigionieri dell’esercito russo – un interessamento di cui fu incaricato da Togliatti, a scopo di proselitismo. “Bianco, in particolare”, scrive la storica che si è occupata da ultimo dell’Armir, Maria Teresa Giusti, “I prigionieri italiani in Russia”, “all’inizio del 1943, subito dopo la disfatta dell’esercito italiano sul fronte del Don, ebbe l’incarico di organizzare il lavoro politico tra i prigionieri di guerra italiani, creando le scuole politiche e il giornale per i prigionieri”.
Bianco allargò il suo campo d’azione in senso genericamente filantropico. Visitò i campi di prigionia e ne scrisse preoccupato a Togliatti, che anche lui risiedeva a Mosca. In una lettera presto famosa del 31 gennaio 1943 gli scriveva: “Ti pongo una questione molto delicata di carattere politico molto grande. Penso che bisogna trovare una via, un mezzo per cercare, con le dovute forme,con il dovuto tatto politico, di porre il problema, affinché non abbia a registrarsi il caso che i prigionieri di guerra muoiano in massa come ciò è già avvenuto”. Togliatti gli rispose celiando, il 15 febbraio, in un’altra lettera famosa resa pubblica trent’anni fa, quando si aprirono gli archivi di Mosca. Una lettera che fece “accapponare” Achille Occhetto, il segretario del Pci-Pds. Il giornale “la Repubblica” s’incaricò si svelenire la risposta di Togliatti, asserendo che lo storico che l’aveva recuperata aveva commesso errori di trascrizione o di lettura. Ma la lettera è chiara: “L’altra questione sulla quale sono in disaccordo con te è quella del trattamento dei prigionieri. Non sono per niente feroce, come tu sai. Sono umanitario quanto te. O quanto può esserlo una dama della Croce Rossa. La nostra posizione di principio rispetto agli eserciti che hanno invaso l’Unione Sovietica è stata definita da Stalin, e non vi è più niente da dire. Nella pratica, però, se un buon numero di prigionieri morirà in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire. Anzi. E ti spiego il perché”. Il perché è che “l’ideologia imperialista e brigantesca del fascismo” è penetrata nel popolo. Che quindi ha bisogno di un risveglio brusco: “Quanto più largamente penetrerà nel popolo la convinzione che aggressione contro altri paesi significa rovina e morte per il proprio, significa rovina e morte per ogni cittadino individualmente preso, tanto meglio sarà per l’avvenire d’Italia”. Proseguiva citando “i massacri” di Dogali e Adua, “uno dei più potenti stimoli allo sviluppo del movimento socialista” in Italia. E concludeva: “Io non sostengo affatto che i prigionieri si debbano sopprimere, tanto più che possiamo servircene per ottenere certi risultati in un altro modo, ma nelle durezze oggettive che può provocare la fine di molti di loro non riesco a vedere altro che la concreta espressione di quella giustizia che il vecchio Hegel diceva essere immanente in tutta la storia. 
“E ora alle questioni pratiche di lavoro.” 
Bianco replicò il 20 marzo - “seccamente", dice Giusti, ma senza seguito: “Non condivido il tuo punto di vista e perciò mi sono rivolto a Giorgio”. Giorgio è Dimitrov, il segretario del Comintern.  Che il 16 marzo annotava nel diario, poi pubblico: “Bianco mi ha informato del suo viaggio nel campo dei prigionieri di guerra di Tiomnikov…. Un’enorme mortalità. Deficienze nel campo. Impostazioni sbagliate del comandante del campo, ecc..Gli ho chiesto una relazione scritta”. La relazione fu dettagliata delle sofferenze inutili nei campi (Bianco prendeva le parti anche dei prigionieri tedeschi) ma restò negli archivi. 
Il seguito della vicenda è di venti mesi dopo. Per Natale del 1944, con le truppe sovietiche già in Germania, Togliatti chiese l’autorizzazione alla raccolta e distribuzione di “piccoli regali” ai soldati e agli ufficiali italiani  prigionieri, un “importante evento politico” . L’autorizzazione fu negata e Togliatti commentò che ne era compromesso il lavoro antifascista nei campi. Gli italiani prigionieri dopo il contrattacco sovietico erano 70 mila. Di essi 20 mila si calcola siano morti nel primo inverno, negli spostamenti tra i campi. Degli altri 50 mila sopravvivevano a fine guerra circa 10 mila, poi gradualmente rimpatriati.         
Nel 1950, pochi mesi dopo la “scomunica” staliniana di Tito nel 1948, Bianco fu sospeso da ogni incarico di partito. Per trent’anni lavorerà ignorato all’archivio dell’ “Unità”, addetto alla traduzione dal russo di articoli della  “Pravda”, il giornale del partito Comunista Sovietico.  


Regina Coeli
– Un carcere col nome della Madonna del “Salve, Regina”. Era un convento di suore, creato a metà Seicento, vittima delle leggi “eversive” (dell’asse ecclesiastico) dell’Italia laica, 1866 e 1867, applicate a Roma subito dopo Porta Pia. Una delle prime applicazioni a Roma delle leggi: nel 1881 il complesso era già destinato a carcere. La ristrutturazione fu completata nel 1900. 
Nel frattempo un edificio contiguo era stato destinato a carcere femminile, detto delle Mantellate. Un altro convento del Seicento - Mantellate dal nome popolare delle suore che lo abitavano – che serviva anche, attraverso una ruota aperta sulla strada, a riceve i neonati abbandonati. 
Poiché il carcere è sotto il Gianicolo, sotto la grande terrazza del colle, questa è stata a lungo luogo di comunicazione con i detenuti, che si riconoscevano sulle terrazze-tetto, e nei cortili. L’ultimo scampolo di questo commercio si ebbe quando vi fu detenuto Enzo Tortora: i fotografi puntarono per molti giorni tetti e cortili per carpire qualche immagine del popolare presentatore.

Sauditi – In Arabia Saudita, Stato patrimoniale secondo la terminologia di Max Weber, cioè proprietà privata, di una persona-famiglia-dinastia, tutto è di proprietà della famiglia regnante, i figli del fondatore del reame, Abdelaziz ibn Feisal al Saud. Il re in carica, Salman, è l’ultimo dei fratellastri figli di al Saud. Il suo successore designato, figlio del re in carica, Mohammed bin Salman, inaugura una seconda linea. 
Nel 1974, un anno dopo lo “shock petrolifero” che triplicò i prezzi del petrolio, un principe saudita teneva banco a Montecarlo, al casinò. Ljuba Rizzoli, oggi 92nne, allora vamp di gran lustro, moglie dell’editore-produttore Rizzoli, lo ricorda in un’intervista con Aldo Cazzullo sul “Corriere della sera”. La signora Rizzoli va “a prenotare il tavolo del baccarat, ma mi avvisano che è già riservato all’erede al trono saudita, appunto Fahd”. Non era esattamente così: l’erede al trono era Khaled. Che un anno dopo succederà al fratello Feisal, il primo sovrano che aveva introdotto un minimo di modernizzazione nel reame, consentendo l’uso della radio a transistor (veicolo dell’aborrita propaganda egiziana, “rivoluzionaria” - nasseriana, laica) e aprendo una scuola per fanciulle, con insegnanti ciechi. Feisal sarà assassinato a palazzo l’anno dopo, il 25 marzo 1975 – a opera, si disse, di un nipote squilibrato. 
Fahd non era ancora principe ereditario, lo sarà dopo la morte di Feisal, scelto dai fratelli. E sarà re nel 1982, dopo Khaled: regnerà a lungo, fino al 2005, nazionalizzerà il petrolio (fino ad allora di proprietà del consorzio americano Aramco), senza inimicarsi le compagnie, e modernizzerà l’Arabia Saudita dal punto di vista economico, creando industrie locali a valle della produzione di petrolio greggio - seppure con manodopera straniera (il saudita non fa lavori meniali). Ma è vero che a fine 1974-primi 1975 si era stabilito a Montecarlo con l’intento dichiarato di sbancare il casinò, rilanciando senza riserve. 
Avvenne come Ljuba Rizzoli dice: “Al casinò non si vince mai. Chi dice di poterlo fare scientificamente è uno stupido”.  Il banco non saltò. Del principe, dopo qualche mese, non si parlò più – fino a che non riemerse come principe ereditario.
Fahd non era il solo: i principi sauditi, per un paio d’anni dopo la colossale fortuna capitatagli con lo shock petrolifero, erano studiati in America, nelle pubblicazioni di psicologia, come portatori di una nuova sindrome. Che rimase poi senza nome, ma il dibattito fu concorde che era un disturbo forte della personalità, nel senso della megalomania.
Feisal si ricorda l’estate del 1959 al luna park londinese di Battersea sull’autoscontro, con un paio di ragazzette inglesi divertitissime di giocare col paludatissimo gentleman. Quando scese, fece un sorriso mesto mentre si girava per allontanarsi, alto, di figura ascetica. Le ragazze invece si commentavano eccitate, rosse in viso, l’avventura. Altre figure ieratiche, anche esse in tunica color dell’aria, seguivano sparse il principe. Una di esse si fermò a distanza, per ringraziare le ragazze. Non era dato sentire se parlava l’inglese, ma poi, sempre tenendosi a distanza, porse con la mano aperta due biglietti da venti sterline. Le ragazze si guardarono sorprese, e all’unisono, senza parlare, si misero a correre a tutta velocità – il cortigiano, ripiegati i biglietti nella manica, sorrise comprensivo.

Svizzera - La Svizzera nasce sacra: il capo degli Elvetici aveva nome tropaico, domotaurus, toro potente. Il toro con le corna è simbolo di potenza, anche i santi e i profeti se ne adornano.  


astolfo@antiit.eu

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