Kafka dall’analista, si processa
Kafka si processa e si condanna. Sotto ogni aspetto colpevole. Di mancata
resistenza – di mancanza di carattere, che culmina nella frase finale, la vera
condanna del processato: “E fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere”.
Uscito postumo, e letto come una sorta di testamento
metafisico, sulla condizione umana, acquista alla rilettura un senso di saputo,
di già visto, per chi dell’autore ha esplorato qualche aspetto personale, anche
solo le corrispondenze pubblicate. Una specie di autoritratto in forma di
autodiagnosi, come dall’analista.
Il personaggio, per quanto anonimo, è ben delineato.
Ritratto sull’autore, su quello che di lui si è poi saputo, dalle lettere, a
cominciare dal padre, e dai rapporti di lavoro, con le fidanzate, con gli
amici. La colpa è ignota al “tribunale” stesso. Ma non all’autore. Il
processato non è coerente, è anzi instabile, è debole, perso “in gelosie meschine,
in falsi amori, in timidezze malate, in adempimenti statici e ossessivi” (Primo
Levi, che ne è anche il traduttore). Che non era (probabilmente) Kafka, ma così
si vedeva.
Franz Kafka, Il processo, Einaudi, pp. 268 €
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