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Vecchia vera Italia
Nel 1940-41, nel pieno di una guerra oltraggiosa, di un regime sofferto,
Calamandrei si concede una vacanza mentale. Cioè torna ai fondamentali: la
vita, il linguaggio (la letteratura, la poesia), la natura. Questa soprattutto,
che lui vive, in questo frangente storico, con abbandono. In una casa di
campagna che in realtà è la sua casa al mare, al Poveromo di Marina di Massa,
vicino di casa di moltri altri personaggi. Savinio, Longhi, et al. Sotto le Apuane, a portata di
passeggiata – e saranno la parte centrale, forse la più evocativa tra le tante,
del Calamandrei cercatore provetto di funghi. E per Natale 1941 invia agli
amici questo libro, di cui ha fatto stampare 300 copie, a uso solo personale,
dall’editore Lemonnnier, con le illustrazioni di Pietro Parigi – “discusse
minuziosamente con l’autore”, annota nella presentazione Silvia Calamandrei.
Un capolavoro nascosto. Di forte letteratura – linguaggio – benché di
giurista. Di studiatissima naturalezza, e avvincente, benché di argomenti
poveri. Il ricordo del padre. Del padre col figlio. Del nonno, giudice
istruttore, con cui l’autore fa tutto e impara tutto, dalle aste alla
rifioritura del cappero (provarsi!), o alla smielatura, con l’eccidio delle api
– e l’“acqua melata”. Di Montauto e di Montepulcano. Delle prime avventure
solitarie, fuori casa, fuori paese. Dei fiori e le piante. La vita bella e infelice
delle farfalle, lunghi capitoli, Col trionfo finale dei funghi: la sveglia all’alba,
il bosco, i “posti”, e la vita e la società dei funghi - i lunghi capitoli
finali si leggono come un’odissea, altrettanto pieni di piccole e grandi sorprese.
La maggiore, e quella che definisce l’opera, la sensibilità di Calamandrei? I funghi sono vegetali e animali, con
una loro fisionomia, mobile, alla maniera delle forme ibride marine, da cui la
vita si è messa in movimento, le meduse, le stelle di mare, i coralli….
Una lettura semplice, di cose minute, e invece avvincente: il severo
giurista fa rivivere l’infanzia, “il dolce tempo della libertà”, in un tempo
senza tempo, in luoghi estremamente caratterizzati che sanno di ovunque - si
legge come se si fosse cullati.
La narrazione si vuole ed è giocosa anche se l’occasione è mesta. I ricordi fluiscono vivaci, sereni, copme da bambino emergono le figurine
delle decalcomanie: “Tali ancor oggi, fatti di tinte pure che si infiammano
contro luce, mi appaioono i ricordi dell’infanzia”. Ciò avviene nell’“ambiguo
tempo fra i quaranta e i cinquant’anni, in cui ci si accorge che la nostra tribù
comincia a fare i preparativi per la partenza”. Nella “stagione degli addii”,
che Calamandrei vuole “tempestosa”, fra le speranze della gioventù e la rassegnazione
della vecchiaia”. Che sono poi le stagioni della vita: “Ieri sono partiti i
nostri genitori verso la morte, domani partitanno i nostri figliuoli verso la
loro vita”. Ma è un passaggio che è anche “un incantesimo”: “Ci accorgiamo che
la gioventù è finita quando si è spenta in noi questa seconda vista infantile che
nella labile parvenza delle cose riesce a secernere la convincente ed eterna
verità delle cose sognte”.
Con una terminologia sempre precisa. Anche desueta. Parole ricorrono che
si pensano locali, campanilistiche, da veglie di Neri, e invece hanno dignità
di Crusca, per essere o dire cose precise - il lessico s’impoverisce più che
arricchirsi?
Un’opera salvata da Christophe Carraud, il petrarchista francese, che
prima l’ha tradotta una dozzina d’anni fa per le sue edizioni Conférence, e poi
è riuscito a farla riprendere in originale. Con una messa in qadro di Silvia
Calamandrei, la nipote di Piero – figlia di Franco Calamandrei. “In quest’opera
la patria trova la sua lingua”, può annotare Carraud, senza ostentazioni
polemiche, la sua vera natura. Come Iris Origo accennava nella lettera di
ringraziamento: il fatto o l’idea che “in certe forme di letteratura la lingua
faccia parte del paesaggio che descrive”. Qui modesta, diretta, veritiera.
Piero Calamandrei, Inventario della casa di campagna, Edizioni di
Storia e Letteratura, pp. 293, ill. € 18
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