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Il carcere, ossessione dell’America
“Puritanesimo
e frontiera, le due matrici dell’immaginario ameircano”, “i due archetipi
originari”, portano al carcere. Nel
western e poi, finita la saga della frontiera, nella classificazione e nel
controllo della metropoli, con la saga dei supereroi (ma qui l’archetipo non
sarebbe Fritz Lang, “Metropolis”?). “Poche culture sono ossessionate dal tema
del carcere come quella americana” è l’esordio del saggio, e questo è più che
vero: in nessun’altra realtà c’è l’ossessione del carcere. I prison studies sono “molto diffusi nell’americanistica”, in America e
fuori, e in nessun’altra filologia.
Il
carcere emerge nella narrativa con Defoe, “Moll Flanders”. Ma diventa una
costante in America: “Poche culture sono ossessionate dal tema del carcere come
quella statunitense: dalle storie western (si pensi alla costante presenza e
evocazione del carcere di Yuma) a quelle di evasione (Escape from Alcatraz – Fuga da Alcatraz o la serie di successo Prison Break), dai trial
movies alla fantascienza (in Escape from New York – 1997, l’intera isola
di Manhattan viene riconvertita in un mondo penitenziario) fino a diventare un genere
narrativo specifico: il prison novel
o movie”.
C’è
una ragione se il carcere è “uno dei contesti narrativi più potenti e duraturi
dell’immaginario americano”. Ce ne sono due, i due grandi archetipi che fondano
l’immaginario: quello puritano (e dunque religioso) che risulta dominante fino
al XVIII secolo circa, e quello della frontiera, che si sviluppa molto rapidamente
nel XIX secolo”.
Emiliano
Ilardi-Fabio Tarzia, La funzione
simbolica del carcere nell’immaginario letterario e cinematografico americano,
“Publifarum”, libero online
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