astolfo
Napoleone – Era spietato.
Ecco perché, se ben accolto in Germania e nel Lombardo-Veneto, aree già
politicamente e amministrativamente strutturate, che si aspettavano da lui i
lumi della rivoluzione, non lo fu in Spagna, in Sud Italia, e poi all’Est –
nessuno dei popoli sudditi dell’impero
russo, gli stessi che oggi fanno la guerra alla Russia post-sovietica, si
sollevò al suo passaggio. Ovunque le sue armate avevano libertà di saccheggio e
di stupro per due giorni. Il fratello Giuseppe, che aveva nominato a Napoli,
riteneva e diceva un debole perché non usava le maniere forti: saccheggi, anche
in un regno che non si era granché opposto, comprese le violenze personali,
contro le donne e contro chiunque, e distruzioni. Era uno che occupava, e non
liberava.
In
“Cronache della Calabria in guerra” – contro i francesi – lo storico Atanasio
Mozzillo riporta un testo fin troppo chiaro delle modalità con cui si faceva la
“liberazione” napoleonica, redatto come promemoria storico della lunga
opposizione calabrese alla dominazione francese, sotto forma di verbale, dal
Consiglio Provinciale di Calabria Citra, filofrancese, a Cosenza: “Lo spoglio di particolari
e delle comuni, le esazioni di ogni genere anche inutili, che ogni subalterno
si permetteva; la insultante credulità con cui venivano trattati gli abitanti;
il dispregio, l’oltraggio, le insolenze usate contro degli amministratori delle
comuni, contro degli impiegati pubblici; il nessun conto tenuto delle opinioni,
de’ costumi, de’ pregiudizi del popolo; la intera licenza permessasi nello
interno delle famiglie stesse, che si portava a che niun pubblico edifizio,
nessun utile stabilimento, niuna casa, ancorché privata, lasciò illesa furono i
soli principij della condotta tenuta nella nostra provincia. Ecco come per tre
anni è stato quasi costantemente trattato il popolo calabrese, e come se la
milizia non fosse bastata a mettere la desolazione nel paese, chiamò in suo soccorso
folla di esteri avventurieri, che coprirono le cariche più luminose, portandovi
uno spirito tanto più raffinatamente rapace quando era frutto della speranza”.
Croati e corsi, e qualche generale spagnolo.
Guillaume
Postel
– Inventò l’Oriente – e per converso l’Occidente. C’è un Oriente creatura
dell’Occidente, fumoso – quello di Pessoa: “Cerco nell’oppio che consola\ un
Oriente a oriente dell’Oriente”, una via di fuga. Una cosa da turisti anche se
risale al Cinquecento, al Postel che per ultimo si eresse nel 1553 in difesa di
Serveto, il negatore della Trinità bruciato dai calvinisti, nel nome della fede
ragionata e avrebbe voluto essere gesuita.
Guillaume
Postel non era un fregnone, fu anzi uno studioso, dell’islam, le lingue
semitichle, l’impero turco, Atene all’era di Pericle, la unione delle fedi, il
dialogo tra monoteisti, cattolici, riformati, mussulmani, ebrei, ma aveva le visioni
e costrinse sant’Ignazio a denunciarlo all’Inquisizione, e il buon papa Paolo
IV a rinchiuderlo, dannandolo ad infamiam
amentiae, all’infamia della follia, e all’Indice. Il carcere gli fu aperto quando
il papa morì nel ‘59, ma Postel si isolò nel priorato di
Saint-Martin-des-Champs a Parigi, oggi sede del Conservatorio e del Museo arti
e mestieri, dove morì nel 1581.
Le visioni erano di una Madre Zuana o Giovanna, Vergine Veneziana, o Veronese, Mater
Mundi, Nuova Eva, Donna santissima, Messia femmina, che si voleva incarnazione
dello Spirito Santo: Postel scriveva per conto di lei, delle sue mistiche
unioni.
Il primo
orientalista, a lungo il migliore, filologo solido, debuttò a tredici anni come
maestro di scuola al suo paese in Normandia. Poi decise di continuare gli studi,
al collegio Santa Barba a Parigi dove entrò domestico. A ventotto anni era professore
al Collegio di Francia di ebraico, arabo e siriaco, nonché di greco e latino.
Nell’occasione pubblicò in latino una Introduzione
ai caratteri alfabetici di dodici differenti lingue – in essa decritta le
iscrizioni sulle monete della rivolta ebraica come ebraico scritto in caratteri
samaritani. A ventisei anni, nel 1536, era stato parte dell’ambasceria di
Francesco I a Costantinopoli, alla corte di Solimano il Magnifico, in veste d’interprete
e collettore di testi classici, greci, arabi, ebraici - il re cristianissimo cercava
un’alleanza con i turchi contro Carlo V, il protettore della cristianità.
Insegnò a Parigi, Vienna, Roma, Venezia e altrove. A Parigi, le sue lezioni al
collegio dei Lombardi richiamarono tale folla che dovette tenerne anche in
cortile, da una finestra. Nel 1575 dedicò le sue “Histoires orientales” a Francesco di Valois, che Caterina dei Medici avrebbe
voluto affidargli fanciullo.
Delle
opere riscattate in Oriente Postel editò gli astronomi arabi e la Cabala. Fu
traduttore in latino dello “Zohar”, del “Sefer Yezirah”, del “Sefer ha-Bahir”,
nonché illustratore dei significati cabalistici della menorah. Con aperture che avrebbero potuto eliminare alla radice le
derive maschiliste della cabalistica, ma gli valsero l’ostilità di sant’Ignazio.
L’inquisitore Archinto, cui il santo lo denunciò, lo assolse e l’ordinò prete,
“a titolo di purezza, come erano gli apostoli”. Ignazio lo sottopose allora a
una speciale commissione di tre giurati, i gesuiti Salmeron, Lhoost, Ugoletto,
che lo dichiararono “soggetto a illusioni manifeste del demonio”.
Postel
aveva conosciuto Ignazio di Loyola quando questi era a Parigi, al collegio dei
Lombardi. E aveva preso i voti di povertà, castità e obbedienza, quale novizio
gesuita, a Roma, ripetendo il giuramento nelle sette chiese. Degli astronomi
arabi fu preciso commentatore, facendo dubitare della conoscenza che si aveva di
Copernico allora in Europa, se non dello stesso Copernico.
Sagacia
analoga il Postello della Vergine Veneziana applicherà all’Egitto, ed è
l’inizio dell’orientalismo, di cui tanto Oriente, oltre che l’Occidente, è
vittima. La “fede ragionata” e la “ricomposizione di tutte le cose” nella fede
unita annegheranno nell’egittologia. Che sarà napoleonica per essere stata di
Postel, in quanto autore della “Chiave di tutte le cose”, ossia dei tarocchi –
l’Egitto del futuro imperatore era nelle carte.
Filologo
ineccepibile, Postel deriva tarocco dall’egiziano taro, strada reale, termine composto da tar, strada, e ros o rog, regale – da cui, forse, la Scala
Reale del poker. Lo studioso individua anche un nesso fra tarocchi e cabala,
tra i semi e gli elementi primordiali. Nello stesso anno, 1540, in cui si
creava a Rouen la prima società dei maestri cartai. Che nel 1581, l’anno in cui
Postel morì, diverrà arte riconosciuta all’interno della Corporazione arti e
mestieri di Parigi, quella che avrà poi sede al boulevard Saint-Martin, e
assoggettata a imposta di bollo. Ma semanticamente Postel collega gli Arcani
Maggiori ai geroglifici del “Libro di Toth”, il dio della medicina. Geroglifici
che ancora per secoli non saranno leggibili.
Nel
1549, illustrando “La vera descrizione del Cairo”, la mappa stampata a Venezia
da Matteo Pagano, Postel spiega, sempre correttamente, che la città è turca più
che araba, e che le Piramidi sono “mostri incoronati”, monumenti alla
tirannide, non i granai di Giuseppe che si dicevano. Ma nella “Chiave di tutte
le cose”, pubblicata lo stesso anno, apre la città ai misteri, Il Cairo
costituisce da sempre un problema aperto per l’orientalismo. L’origine di
questo Oriente è in Plutarco, che attribuisce a Iside l’istituzione dei
misteri, grandi e piccoli, o verità esoteriche riservate agli iniziati, nonché
in Erodoto, Platone, Apuleio e perfino in Aristotele. Una serie di finzioni ne
germinò, culminata in Orapollo, l’autore dei “Hyerogliphica” che in realtà non
sapeva nulla dei geroglifici. In epoca moderna l’origine è in Postel, che più
di ogni altro pure ha affidabilmente tracciato le radici orientali, semitiche,
di tanta cultura occidentale. E nell’Inquisizione, che processò Postel per le
opere sulla fede unica, la fede ragionata, e sulla concordia religiosa, la
natura cabalistica dell’Egitto, poi teosofica, lasciando invece incontestata. E
fu l’Oriente taroccato.
Palizzi – Giuseppe Palizzi, di Lanciano, pittore,è solo
ricordato a Parigi, dove ha vissuto e lavorato, ed è stato sepolto nel 1888,
fra le persone illustri del Père Lachaise. Esponente della scuola di Barbizon,
una colonia artistica, di paesaggisti, della località omonima, e della vicina
Grez-sur-Loing, nella foresta di Fontainebleau, nei pressi di Parigi. Una
colonia che Stevenson molto amava, e ha
illustrato nelle note di viaggio “Across the Plains”, 1884 (oggi meta
turistica, nel nome di Stevenson, un “sentiero”a lui dedicato, tra natura e
pittura).
Si era formato
a Napoli alla Accademia di Belle Arti, e a Napoli aveva esposto i primi lavori,
alla Biennale Borbonica, nel 1839 e nel 1841, come paesaggista romantico,
specializzato in soggetti animali. Nel 1844 si stabilisce a Parigi, dove entra
subito in contatto con Corot e Courbet. E già l’anno dopo espone al Salon. Tornerà
spesso a Napoli, per esporre e vendere, nel 1854, nel 1859 e ancora dopo l’unità,
nel 1866. Ma è a Parigi che si era integrato, nella “Scuola di Barbizon”, di
cui resta l’esponente forse più noto.
Aveva messo su
casa a Grez-sur-Long. Nello studio-opificio richiamando i suo tre fratelli, dei
quali però uno solo resterà a convivere con lui, Filippo – Francesco Paolo, il
minore, preferisce Napoli, e il terzo, Nicola, presto lo raggiungerà, scontento
di Barbizon. I due fratelli, Giuseppe e Filippo, diventano famosi come “i
pittori degli asini e delle capre”. Scambiandosi spesso le firme, perché
Giuseppe vendeva meglio in Francia e Filippo in Italia.
astolfo@antiit.eu
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