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lunedì 19 agosto 2024

La fame è durezza

La fame. La guerra e la fame. La guerra agli ultimi suoi fuochi, nell’inverno 1944-45, in Calabria, ma la più dura, anche distruttiva: tra città e paesi rasi dai bombardamenti, le cicche buttate dai liberatori, ai ragazzi che le raccolgono per farne sigarette o tabacco da rivendere, e agli adulti, le violenze alle donne – niente buonismi alla “C’è ancora domani”. E la fame.
Il viaggio in città c’è, la scoperta della città da parte del ragazzo narratore, di paese. Ma il racconto è della fame. Il secondo capitolo, il più lungo, una veglia alla stazioncina di notte, al freddo dell’inverno, dove passa un solo treno al giorno, in attesa del treno per la città, è della fame, nella sua spaventosa ordinarietà. Oggi non si riesce a concepirla, il racconto la fa rivivere nella lunga attesa, il treno del pomeriggio passerà l’indomani mattina, col mondo rovesciato: chi è, ha e sa patisce la fame, se non con difficoltà e a prezzo d’oro, il contadino bruto e il vaccaro sono sazi. E non regalano una briciola. Neanche al bambino che urla dalla fame, e dal freddo, con la madre disperata.
Il resto è la scoperta della città, di una ragazzo vaccaro al suo paese, che scopre Reggio in compagnia di un cugino-compare trafficone. Uno sordo d’orecchi e d’animo, che va al paese a ubriacarsi senza pagare e riempire le valige di pane da rivendere in città a caro prezzo, e non dà una briciola a nessuno, per nessun motivo. Un peana per la città. Bellissima sullo Stretto. Illuminata di notte, che meraviglia. Dove le ragazze parlano ai ragazzi – “al mio paese le ragazze non parlano con i ragazzi”, abbassano gli occhi, “ti passano davanti allungando il passo”. Le bande di ragazzi perduti alle calcagna dei soldati alleati. Il,ritorno a casa di notte indirizzato da un pazzo che torna al manicomio. Il tentativo d’intrallazzare, soppressate, che finisce nella vergogna – la città ha le sue spire.
Con qualche incongruenza. Un toscanismo, “si gioca davvero!” in bocca al capo dei ragazzi perduti, fra la raccolta di cicche e le carte truccate. O il ragazzo narratore-vaccaro incolto che illustra i Monti Peloritani. Con una deriva verso il neo realismo: i ragazzi perduti sono pasoliniani, cattivi e buoni, straccioni e aristocratici. Il nemico poi amico del protagonista, “il ragazzo dalla camiciola verde”, ancora senza nome, inconsultamente appare così, fra tranelli, trucchi, pugni e botte varie, al protagonista-narratore: “Aveva gli occhi molto grigi e grandi e le sopracciglie nere e fitte. Era bello”.
Non più ripubblicato dalla prima edizione, nella collana “Il Tornasole” di un Mondadori vittoriniano, “della letteratura militante”, nel 1962. Poi fatto confluire, tre anni più tardi, dall’editore nel più lungo volume di racconti itineranti di Strati, “Gente in viaggio” - per qualificarlo al Premilo Sila, sotto il patrocinio di Debenedetti. Di cui resta, malgrado tutto, la parte più felice.
Saverio Strati, Avventure in città, Mondadori, pp. 209, pp. vv.

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