La fame è durezza
La
fame. La guerra e la fame. La guerra agli ultimi suoi fuochi, nell’inverno
1944-45, in Calabria, ma la più dura, anche distruttiva: tra città e paesi rasi
dai bombardamenti, le cicche buttate dai liberatori, ai ragazzi che le raccolgono
per farne sigarette o tabacco da rivendere, e agli adulti, le violenze alle
donne – niente buonismi alla “C’è ancora domani”. E la fame.
Il
viaggio in città c’è, la scoperta della città da parte del ragazzo narratore,
di paese. Ma il racconto è della fame. Il secondo capitolo, il più lungo, una
veglia alla stazioncina di notte, al freddo dell’inverno, dove passa un solo
treno al giorno, in attesa del treno per la città, è della fame, nella sua
spaventosa ordinarietà. Oggi non si riesce a concepirla, il racconto la fa
rivivere nella lunga attesa, il treno del pomeriggio passerà l’indomani mattina,
col mondo rovesciato: chi è, ha e sa patisce la fame, se non con difficoltà e a
prezzo d’oro, il contadino bruto e il vaccaro sono sazi. E non regalano una
briciola. Neanche al bambino che urla dalla fame, e dal freddo, con la madre
disperata.
Il
resto è la scoperta della città, di una ragazzo vaccaro al suo paese, che scopre
Reggio in compagnia di un cugino-compare trafficone. Uno sordo d’orecchi e
d’animo, che va al paese a ubriacarsi senza pagare e riempire le valige di pane
da rivendere in città a caro prezzo, e non dà una briciola a nessuno, per
nessun motivo. Un peana per la città. Bellissima sullo Stretto. Illuminata di
notte, che meraviglia. Dove le ragazze parlano ai ragazzi – “al mio paese le
ragazze non parlano con i ragazzi”, abbassano gli occhi, “ti passano davanti
allungando il passo”. Le bande di ragazzi perduti alle calcagna dei soldati alleati.
Il,ritorno a casa di notte indirizzato da un pazzo che torna al manicomio. Il
tentativo d’intrallazzare, soppressate, che finisce nella vergogna – la città
ha le sue spire.
Con
qualche incongruenza. Un toscanismo, “si gioca davvero!” in bocca al capo dei
ragazzi perduti, fra la raccolta di cicche e le carte truccate. O il ragazzo
narratore-vaccaro incolto che illustra i Monti Peloritani. Con una deriva verso
il neo realismo: i ragazzi perduti sono pasoliniani, cattivi e buoni,
straccioni e aristocratici. Il nemico poi amico del protagonista, “il ragazzo
dalla camiciola verde”, ancora senza nome, inconsultamente appare così, fra
tranelli, trucchi, pugni e botte varie, al protagonista-narratore: “Aveva gli
occhi molto grigi e grandi e le sopracciglie nere e fitte. Era bello”.
Non
più ripubblicato dalla prima edizione, nella collana “Il Tornasole” di un
Mondadori vittoriniano, “della letteratura militante”, nel 1962. Poi fatto
confluire, tre anni più tardi, dall’editore
nel più lungo volume di racconti itineranti di Strati, “Gente in viaggio” - per
qualificarlo al Premilo Sila, sotto il patrocinio di Debenedetti. Di cui resta,
malgrado tutto, la parte più felice.
Saverio Strati, Avventure in città,
Mondadori, pp. 209, pp. vv.
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