La favola della fortuna, cornuta
La
scrittura sempre accesa, con l’uso pregnante di un vocabolario spesso locale,
dialettale – ma significante. E il racconto legato ai personaggi – qui uno solo
– che fanno seppuku davanti al lettore
(comunemente si dice “si confessano”, di fatto si eviscerano, compiaciuti ma
anche cattivi, non solo con gli altri), che sono la cifra di Strati. Qui mostrano
la sua vena sommersa, portante: l’affabulazione.
Strati
è uno scrittore favolistico, applicato alla cosiddetta nuda realtà, cioè faticata,
dura – non povera, che c’entra, fa obiettare qui al suo indiavolato
“diavolaro”, non ci possono essere persone che muoiono di fame (“ci sono erbe,
ci sono olive, avete la testa”). Favolistica l’infanzia del futuro “diavolaro” -
il grande imprenditore, direbbe il linguaggio del mercato, il manager di se
stesso, che soprattutto perde le occasioni, ma poi rimedia. Favolistica la remotezza
dei villaggi sul mare, con la strada, la ferrovia, e uno perfino con l’ospedale
– siamo in Calabria, si sa ma non si dice. Favolistici i villaggi interni,
senza la “rotabile” e senza nemeno case, giusto tuguri. Favolistici i “mastri”,
lo scalpellino, il mutarore, con i quali il “diavolaro” bambino è cresciuto.
Favolistico il massaro, il pastore, ricco più di ogni altro – come lo erano i
“pastori” del paese di C.Alvaro (compresa la famiglia dell’altera madre) – e
ingegnoso, generoso, duro, su cui il “diavolaro” si modellerà.
Favolistica
la “greciomagna”, ancora più derelitta – l’area grecanica che ora, con i fondi
Ue, si è ripittata. “Fra gli ejeni”, elleni, “che parlano un’altra lingua”: “Non
c’era medico a Zeusia (forse Samo, forse Africo, n.d.r.), e non c’era farmacia e non c’era la carrabile. La gente
viveva in delle tane fetide, buie, e le strade facevano da fogna. Nei giorni di
sole, specie d’estate, non si respirava dalla puzza, e le mosche e gl’insetti erano
a nuvole e i bambini correvano nudi, giocavano nudi sulle due piazzuole
polverose e non esisteva una sola donna che portasse le scarpe” – e si è
dimenticato dei porci che grugolavano liberi, come le galline, con gli
escrementi, le pecore, le capre, ma si è ricordato che “si nutrivano di
castagne e di polenta”. Ma le parole, e il ritmo sono tali che non si disprezza
né si va sul “sociale”. Semplicemente, si rivive un’altra realtà – la stessa,
si può testimoniare, che perdurava ancora negli anni 1950, e 1960. Straordinaria è la narrativa, in questo racconto che si vuole minore ed è trascurato, di un mondo così vicino e così remoto, gli ambienti, gli usi, i linguaggi. Profuso e anche ripetitivo, attorno alla verghiana roba, ma con effetto di trasfigurazione, come vuole la favolistica, invece della semplice descrizione/denuncia naturalista o verista - il leitmotiv deve essere esposto, come un suono ritmato di campana, per quanto monotono.
L‘editore
vuole il romanzo “un incentivo alla rivisitazione della memoria”. Sì, e anche
eccellente, molto formativo. Ma “nella convinzione, tutta di Strati, che il suo Sud
debba imparare a cambiare, a partire dall’antica divaricazione tra chi resta e
chi se ne va”. No, questo in Strati non c’è. Lui è uno che se ne è andato,
anche molto lontano, senza staccarsi dalla sua terra, dal vissuto – è perfino
morto, dimenticato e forse indigente, a Scandicci, sobborgo di Firenze, mentre al Paese
pensavano al monumento (ora, per il centenario della nascita, discutono se
spendere in convegni 250 mila euro oppure mezzo milione – mai nessun autore ha
potuto contare su un simile investimento, seppure postumo). Soprattutto, in
Strati non c’è sociologia, non ce’è polemica - lui è uno che, come diceva, mangiava comunista, ma non lo faceva pesare. Il diavolaro è uno che si è fatto
da sé, lontano da casa, a differenza del massaro ricco, il suo maestro, ma non
è di questo che dovrà soffrire. Prima della Lega c’era per il Sud un problema
in meno, si soffriva come ogni altro.
La
lettura favolosa del “reale” è la chiave che aveva sorpreso Giacomo
Debenedetti, nel tempo in cui insegnava a Messina, quando Strati, suo allievo,
su suggerimento di Walter Pedullà, compagno di studi, gli sottopose i primi racconti.
Era il 1953. Debenedetti ne organizzò l’immediato debutto, e poi lo segui per molti
anni. Introducendo lo scrittore, che di sé faticava a non pensarsi come un “franco
narratore”, nelle riviste e gli ambient letterari più coltivati, “Paragone”,
“Il Ponte”, e i premi importanti.
Saverio
Strati, Il diavolaro, Rubbettino,
pp. 209 € 19
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