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La musica reggae è viva, Marley meno
È un biopic,
anche molto sceneggiato, di Bob Marley. Che parte dall’osservazione del primo
produttore discografico dei caraibici: “Erano nessuno”. Bob Marley, Peter Tosh
e Bunny Livingston, quando capitarono nei suoi uffici a Londra - come dire:
devono tutto a me. Ma i tre furono presto un nome – a lungo cantarono in
trio, per una decina di album. Inquieti come tutti i “gruppi”, ma per un motivo:
il produttore che li ha accompagnò per i primi tour nei piccoli locali li ricorda
in eterna discussione, ma non sui ruoli, o sulle ragazze, o sui diritti,
discutevano di scrittura, di versi e di musica.
Il gruppo
poi si divise, e il film è su Bob Marley. Un po’ giulebboso, ma per una
ragione: Robert Nesta Marley è ritratto come un “onesto broker”, risolutore di
problemi, di ognuno. Compositore d’istinto, di versi e musica, insieme acuto e
semplice. Anche diretto, perfino brutale, ma senza intaccare il suo personale
fascino, di umiltà. Pur essendo un mezzosangue, che nella Giamaica degli anni
1940 pesava. Figlio di una nera e di un bianco, svanito già alla sua nascita,
non era di una comunità e non era dell’altra. In qualche modo, paradossalmente,
si radicò nell’ascendenza “rasta”, rastafariana. Di una comunità che iniziava le cerimonie con l’inno: “Morte all’uomo bianco e ai suoi
alleati mulatti”. Si fece allora nero per scelta. Radicandosi nel mondo degli
ex schiavi.
Il film
scarta presto Tosh e Livingston, centrandosi su Marley. E non gli fa un favore –
scade nell’agiografia Ma la memoria vale sicuramente il racconto che ne fa. Di
una musica reggae sempre viva, pur
avendo perduto dopo quarant’anni le asperità “rastafariane” con le quali il
trio si era emancipato, nella decina d’anni che lavorarono assieme,
dall’adolescenza ai venticinque-ventisei anni, con i Wailin’ Wailer, poi
Wailers.
Reinaldo
Marcus Green, One Love, Paramount +
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