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Achille - Un mafioso nel “Troilo e Cressida” di
Shakespeare: uno che fa ammazzare i nemici dagli sgherri, e vuole che si
sappia. Fa inseguire Ettore al ritorno a casa, e mentre si spoglia delle armi,
lo fa attaccare a tradimento. Dopodiché incita i killer: “Avanti, Mirmidoni,
gridate a tutti a gran voce: «Achille ha ucciso il potente Ettore»”. Ma Piero
Boitani fa per questo Shakespeare (“L’epica classica chiusa dal Bardo”
“Domenica-Sole 24 Ore” 25 agosto), il “moderno perfetto”. Dopo aver osservato
dubitativo: “Forse la vera guerra si fa così, facendo attaccare il nemico
disarmato in questo modo”, cioè a tradimento. Dunque, anche il moderno è mafioso.
Anche Shakespeare…..
Carcere – Fra le
“istituzioni totali” che presidiano la narrativa, Vanni Santoni (“La Lettura”
di domenica 18) ne limita l’uso a Roberto Bolaño e Stephen King. Ma l’“istituzione”
era di successo già con Defoe, “Moll Flanders” – con la madre e con la figlia. Molti
sono i carcerati e le carceri nella
letteratura americana (oltre che nella cinematografia), a partire da Poe , “Il
pozzo e il pendolo” – Faulkner per es., “Le palme selvagge”.
Marco
Polo ci scrisse “Il Milione”. Anche Gramsci scrisse molto, e il meglio, in
carcere. Casanova riuscì a fuggirne, per compiere la sua opera – che scriverà
in vecchiaia, un po’ recluso volontario.
Francese – “La lingua della
mediocrità” per il Leopardi maturo: “La lingua francese è propriamente, sotto ogni
rapporto, in ogni verso, la lingua della mediocrità”. Per un motivo preciso: “È
la lingua della ragione e della società” (“Zibaldone”, 1985-86)
È
per questo, aggiungerà, “che il tuono di qualsiasi scrittura francese fin dalla
prima sillaba è quello di uno che parla ad alta voce”.
Musica – “Cos’è in
realtà la musica? È un discorso”, si chiede e si risponde Benjamin Tammuz in
“Il minotauro”. Con una specificità: “Il compositore non parla con parole, ma
con simboli; come un muto che parla a gesti e spera che lo capiscano”. Non
solo: “Non è sicuro. Vuole che lo capiscano, ma sa che i segnali giungono solo
a chi sa decifrarli”.
Il
mondo “di cui il compositore racconta è un mondo reale” – “proprio come la mia stanza,
o come i miei pensieri”, si argomenta lo scrittore – ma “in genere si tratta di
un luogo segreto, che ognuno ha per sé”.
Scrivere – Richiede un pedigree – è tanto migliore scrittura
(poesia, narrativa, etc.) quanto più può vantare precedenti, esercizi e
tentativi pregressi? Ne hanno discusso i caraibici, autori di lingua inglese, sull’onda
di un’osservazione di Naipaul: “È molto difficile scrivere dove non c’è stata
scrittura”. Derek Walcott, al contrario, più upbeat, vantava “l’unicità di scrivere su un’isola caraibica che,
prima di lui, non aveva mai provato la scrittura”. La questione si complicò con
i tanti scrittori caraibici d’Inghilterra, che sapevano poco o nulla dei
Caraibi. Ma non sono tutti scrittori inglesi, di lingua inglese – che raccontano i Caraibi? La scrittura non è la lingua?
Tisi – Funesta nell’Ottocento, e nel
primo Novecento, per gli autori e per i personaggi, Vanni Santoni ne può fare
una lista lunga su “La Lettura” di domenica 19. Partendo dagli autori. La raccontavano
perché ne erano, o ne erano stati, affetti: Cechov, Gozzano, Anne e Charlotte
Brontë, Keats, Orwell, Novalis, Kafka, Paganini e Pergolesi, Modigliani, D.
Hammett e C. Bukowski. E Thomas Mann, che l’ha romanzata – no, Th. Mann no,
infatti non racconta la tbc, né ne fa soffrire i suoi personaggi, se non marginalmente,
il sanatorio è scena di fondo per le “conversation pieces” che fanno “La montagna incantata” o magica, al
Berghof di Davos.
Più
lunga la lista dei personaggi. “La lista, anche escludendo comprimari e
comparse, risulta lunga”, premette Santoni: la Silvia di Leopardi, la Mimì
della “Bohème” di Puccini (la Margherita Gautier di Dumas figlio, “La dama
delle camelie”), il piccolo Ilja dei
“Fratelli Karamazov”, la Fantine di Victor Hugo (l’amore semplice, il primo
amore, dei “Miserabili”), i personaggi dei poemi e racconti del maiorchino Blai
Bonet, lo Hans Castorp e i tanti altri, gesuiti e non, del Berghof di Th. Mann.
La
morte (la morta) per tisi è uno dei soggetti ricorrenti del pittore E. Munch –
“La madre morta”, “La fanciulla malata”.
Monet ha ritratto la moglie morta di tisi nel letto di morte. Ingrid
Bergman è malata di tisi in “Campane di Santa Maria”. Kurosawa ha un dottore
ossessionato dalla tbc in “L’angelo ubriaco”.
La
location di Th. Mann, per quanto di
lusso, ispirerà altri romanzi-saggio, o memoriali. In particolare Thomas
Bernhard, nei cinque romanzi brevi che ne fanno l’autobiografia, “L’origine”,
“La cantina”, “II respiro”, “Il freddo”, “Un bambino”: punto di riflessione
l’infezione giovanile, il luogo il Grafenhof. Ma l’archetipo, in fatto di location, sarebbe il Monte Verità, sopra
Ascona nel Canton Ticino. Che secondo Santoni è il modello del Berghof di Th.
Mann, col suo “numero di ospiti strambi superiori alla media di un sanatorio" –
il Monte ora rifugio di ritiri psichedelici, come già di “festival trasformativi”
e di comunità hippy, aveva ospiti a inizio Novecento, qualche anno prima della
“Montagna incantata” dunque, Jung, Remarque,
Hermann Hesse, Max Brod, Isadora Duncan.
Debellata
la tbc, nota Santoni, altre “istituzioni totali” sono emerse: il manicomio (R.
Musil, Ken Kesey), l’ospedale militare (Bolaño), il carcere (sempre Bolaño, e Stephen
King), Steinbeck, Poe, “Il pozzo e il pendolo”), il convento (“Il nome della
rosa”), il collegio (“Harry Potter”), la comunità di recupero (D.F.Wallace).
Solo Olga Tokarczuk torna al sanatorio, nella novità “Empuzjon”.
Traduzione – Tradurre
“implica trovare, sotto le parole, altre
parole, ognuna delle quali ne nasconde un’altra, e quando viene alla luce evoca
altre cose al posto delle prima”, Claudio Magris, nell’epicedio in memoria di
Jean Pastureau, suo traduttore in francese (“Corriere della sera” di mercoledì
21). Uno scavo. No, un costruzione, continua Magris: “Tradurre significa ricercare
una storia o un destino, facendoli restare se stessi e insieme diventare
altri”.
È
un procedimento “complesso” e “gentile”, continua Magris. In passato le
traduzioni erano semplicemente letteratura e John Dryden riteneva che il suo
capolavoro fosse la traduzione dell’“Eneide”
(come Vincenzo Monti evidentemente dell’“Iliade”, n.d.r.), mentre Goethe diceva
che la versione francese del ‘Faust’ di Gérard de Nerval era migliore del suo
originale tedesco”. Magris la vuole di più. Ricorda Lea Ritter Santini, la
germanista anche grande traduttrice: “La traduzione letteraria ritrae
l’originale con fedeltà e con libertà, come l’onda musicale nella grazia di un
ballo”. E Goethe de “Il divano occidentale-orientale”, “quattro versi che
potrebbero essere il vessillo della traduzione”. «È una creatura viva\ che in
sé stessa si è divisa,\son due che si scelgono\ sì che le si riconosca una?»”
Ma va anche oltre, facendo della traduzione una creazione doppia: “Tradurre significa
ricreare una storia o un destino, facendoli restare se stessi e insieme
diventare altri”.
letterautore@antiit.eu
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