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lunedì 26 agosto 2024

Letture - 556

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Achille
-  Un mafioso nel “Troilo e Cressida” di Shakespeare: uno che fa ammazzare i nemici dagli sgherri, e vuole che si sappia. Fa inseguire Ettore al ritorno a casa, e mentre si spoglia delle armi, lo fa attaccare a tradimento. Dopodiché incita i killer: “Avanti, Mirmidoni, gridate a tutti a gran voce: «Achille ha ucciso il potente Ettore»”. Ma Piero Boitani fa per questo Shakespeare (“L’epica classica chiusa dal Bardo” “Domenica-Sole 24 Ore” 25 agosto), il “moderno perfetto”. Dopo aver osservato dubitativo: “Forse la vera guerra si fa così, facendo attaccare il nemico disarmato in questo modo”, cioè a tradimento. Dunque, anche il moderno è mafioso. Anche Shakespeare…..
 
Carcere
– Fra le “istituzioni totali” che presidiano la narrativa, Vanni Santoni (“La Lettura” di domenica 18) ne limita l’uso a Roberto Bolaño e Stephen King. Ma l’“istituzione” era di successo già con Defoe, “Moll Flanders” – con la madre e con la figlia. Molti sono i carcerati e le carceri  nella letteratura americana (oltre che nella cinematografia), a partire da Poe , “Il pozzo e il pendolo” – Faulkner per es., “Le palme selvagge”.
 
Marco Polo ci scrisse “Il Milione”. Anche Gramsci scrisse molto, e il meglio, in carcere. Casanova riuscì a fuggirne, per compiere la sua opera – che scriverà in vecchiaia, un po’ recluso volontario.

 
Francese
– “La lingua della mediocrità” per il Leopardi maturo: “La lingua francese è propriamente, sotto ogni rapporto, in ogni verso, la lingua della mediocrità”. Per un motivo preciso: “È la lingua della ragione e della società” (“Zibaldone”, 1985-86)
È per questo, aggiungerà, “che il tuono di qualsiasi scrittura francese fin dalla prima sillaba è quello di uno che parla ad alta voce”.
 
Musica – “Cos’è in realtà la musica? È un discorso”, si chiede e si risponde Benjamin Tammuz in “Il minotauro”. Con una specificità: “Il compositore non parla con parole, ma con simboli; come un muto che parla a gesti e spera che lo capiscano”. Non solo: “Non è sicuro. Vuole che lo capiscano, ma sa che i segnali giungono solo a chi sa decifrarli”.
Il mondo “di cui il compositore racconta è un mondo reale” – “proprio come la mia stanza, o come i miei pensieri”, si argomenta lo scrittore – ma “in genere si tratta di un luogo segreto, che ognuno ha per sé”.
 
Scrivere – Richiede un pedigree – è tanto migliore scrittura (poesia, narrativa, etc.) quanto più può vantare precedenti, esercizi e tentativi pregressi? Ne hanno discusso i caraibici, autori di lingua inglese, sull’onda di un’osservazione di Naipaul: “È molto difficile scrivere dove non c’è stata scrittura”. Derek Walcott, al contrario, più upbeat, vantava “l’unicità di scrivere su un’isola caraibica che, prima di lui, non aveva mai provato la scrittura”. La questione si complicò con i tanti scrittori caraibici d’Inghilterra, che sapevano poco o nulla dei Caraibi. Ma non sono tutti scrittori inglesi, di lingua inglese – che raccontano i Caraibi? La scrittura non è la lingua?
 
Tisi – Funesta nell’Ottocento, e nel primo Novecento, per gli autori e per i personaggi, Vanni Santoni ne può fare una lista lunga su “La Lettura” di domenica 19. Partendo dagli autori. La
 raccontavano perché ne erano, o ne erano stati, affetti: Cechov, Gozzano, Anne e Charlotte Brontë, Keats, Orwell, Novalis, Kafka, Paganini e Pergolesi, Modigliani, D. Hammett e C. Bukowski. E Thomas Mann, che l’ha romanzata – no, Th. Mann no, infatti non racconta la tbc, né ne fa soffrire i suoi personaggi, se non marginalmente, il sanatorio è scena di fondo per le “conversation pieces” che fanno “La montagna incantata” o magica, al Berghof di Davos.

Più lunga la lista dei personaggi. “La lista, anche escludendo comprimari e comparse, risulta lunga”, premette Santoni: la Silvia di Leopardi, la Mimì della “Bohème” di Puccini (la Margherita Gautier di Dumas figlio, “La dama delle camelie”), il  piccolo Ilja dei “Fratelli Karamazov”, la Fantine di Victor Hugo (l’amore semplice, il primo amore, dei “Miserabili”), i personaggi dei poemi e racconti del maiorchino Blai Bonet, lo Hans Castorp e i tanti altri, gesuiti e non, del Berghof di Th. Mann.
La morte (la morta) per tisi è uno dei soggetti ricorrenti del pittore E. Munch – “La madre morta”, “La fanciulla malata”.  Monet ha ritratto la moglie morta di tisi nel letto di morte. Ingrid Bergman è malata di tisi in “Campane di Santa Maria”. Kurosawa ha un dottore ossessionato dalla tbc in “L’angelo ubriaco”.
La location di Th. Mann, per quanto di lusso, ispirerà altri romanzi-saggio, o memoriali. In particolare Thomas Bernhard, nei cinque romanzi brevi che ne fanno l’autobiografia, “L’origine”, “La cantina”, “II respiro”, “Il freddo”, “Un bambino”: punto di riflessione l’infezione giovanile, il luogo il Grafenhof. Ma l’archetipo, in fatto di location, sarebbe il Monte Verità, sopra Ascona nel Canton Ticino. Che secondo Santoni è il modello del Berghof di Th. Mann, col suo “numero di ospiti strambi superiori alla media di un sanatorio" – il Monte ora rifugio di ritiri psichedelici, come già di “festival trasformativi” e di comunità hippy, aveva ospiti a inizio Novecento, qualche anno prima della “Montagna incantata” dunque, Jung, Remarque, Hermann Hesse, Max Brod, Isadora Duncan.
Debellata la tbc, nota Santoni, altre “istituzioni totali” sono emerse: il manicomio (R. Musil, Ken Kesey), l’ospedale militare (Bolaño), il carcere (sempre Bolaño, e Stephen King), Steinbeck, Poe, “Il pozzo e il pendolo”), il convento (“Il nome della rosa”), il collegio (“Harry Potter”), la comunità di recupero (D.F.Wallace). Solo Olga Tokarczuk torna al sanatorio, nella novità “Empuzjon”.   
 
Traduzione – Tradurre “implica  trovare, sotto le parole, altre parole, ognuna delle quali ne nasconde un’altra, e quando viene alla luce evoca altre cose al posto delle prima”, Claudio Magris, nell’epicedio in memoria di Jean Pastureau, suo traduttore in francese (“Corriere della sera” di mercoledì 21). Uno scavo. No, un costruzione, continua Magris: “Tradurre significa ricercare una storia o un destino, facendoli restare se stessi e insieme diventare altri”.
È un procedimento “complesso” e “gentile”, continua Magris. In passato le traduzioni erano semplicemente letteratura e John Dryden riteneva che il suo capolavoro fosse  la traduzione dell’“Eneide” (come Vincenzo Monti evidentemente dell’“Iliade”, n.d.r.), mentre Goethe diceva che la versione francese del ‘Faust’ di Gérard de Nerval era migliore del suo originale tedesco”. Magris la vuole di più. Ricorda Lea Ritter Santini, la germanista anche grande traduttrice: “La traduzione letteraria ritrae l’originale con fedeltà e con libertà, come l’onda musicale nella grazia di un ballo”. E Goethe de “Il divano occidentale-orientale”, “quattro versi che potrebbero essere il vessillo della traduzione”. «È una creatura viva\ che in sé stessa si è divisa,\son due che si scelgono\ sì che le si riconosca una?»” Ma va anche oltre, facendo della traduzione una creazione doppia: “Tradurre significa ricreare una storia o un destino, facendoli restare se stessi e insieme diventare altri”.

letterautore@antiit.eu

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