Se scarseggia il lavoro
Il
lavoro merce scarsa, chi l’avrebbe detto. Fra breve, ha potuto scrivere Prodi, “comincerà
la concorrenza, non solo fra imprese, ma anche fra gli stessi paesi”, ad
attrarre forza-lavoro straniera. Con salari migliori, con condizioni di vita e
di lavoro attraenti.
Prodi
scriveva in contemporanea col governatore della Banca d’Italia Panetta nella
sua Relazione annuale. Che ha fatto il conto dei giovani italiani emigrati fra
il 2008 e il 2022: 525 mila. Solo un terzo dei quali è poi ritornato. Emigrati
intellettuali prevalentemente. Finiti all’estero per due motivi semplici, ha
detto Panetta: “Opportunità retributive e di carriera decisamente più
favorevoli”.
L’Italia
è sfavorita in questa gara dai bassi salari. Un fenomeno ormai trentennale, e non
contestato: fra il 1990 e il 2020 le retribuzioni reali (al netto dell’inflazione)
hanno perso il 2,9 per cento. L’unico caso fra tutti i paesi industrializzati che
fanno parte dell’Ocse (sono 38, tutto l’“Occidente”). Con un’accelerazione
negli ultimi anni: l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) ha calcolato
una perdita di valore reale rispetto al 2008 del 12 per cento.
L’occupazione
aumenta perché è poco remunerata. Ma è temporanea (precaria) e poco produttiva.
No solo i salari sono indietro col mondo, anche gli investimenti. Gli investimenti
deficitano perché si può ancora usare manodopera precaria – i due fatti sono interrelati,
in quello che si dice il deficit di produttività (il valore aggiunto per unità
di prodotto con cui si batte la concorrenza produttiva).
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