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sabato 14 settembre 2024

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (571)

Giuseppe Leuzzi

L’imprenditrice di Pompei, organizzatrice di eventi, “dottoressa” senza studi, amante senza amore, soprattutto interessata a un posto statale, che sembra inventata da Checco Zalone, è “la donna del Sud”, secondo i cliché di “Milano”, oppure è nata e vissuta a Pompei per caso? Per caso no, ci è nata da genitori stanziali – in questo è donna del Sud. E caratterialmente, sarebbe lo stesso modello possibile a Milano? Questo c’è da tanto - più d’uno. Dal “cigno nero” impavido dello scandalo Montesi, la “contessa” Marianna Augusta, detta Annamaria, Moneta Caglio Monneret De Villard. La questione femminile, dunque, potrebbe unire l’Italia. 

Però, non si riflette mai abbastanza, è sempre Milano che detta l'agenda al Sud. Nel linguaggio ancora più che mei modi e nei consumi. Al Sud non si riesce a pensare in altra forma che quella leghista, del noi e loro.

La desertificazione del Sud
La demografia è debole, l’Istat come si sa calcola un calo della popolazione al 2080 dagli attuali 59 milioni a 46, di un quinto, quasi un quarto. Ma con differenze: al Nord il calo sarà di meno del 10 per cento, il 9,5, da 27,4 a 24,8 milioni. Al Centro del doppio, il 20,5 per cento, da 11,7 milioni a 9,3. Al Sud del doppio del Centro, quattro volte il Nord - del 39,8 per cento: da 19,9 a 11,9 milioni. Il Sud, cioè, va quasi a dimezzare la popolazione in mezzo secolo.
“La Lettura” analizza la previsione in questi termini: “A causare questo divario saranno i flussi migratori (a parte, cioè, il calo demografico, n.d.r.), soprattuto quelli esterni, ma anche quelli interni. Il risultato sarà che il 54 per cento della popolazione si concentreà al Settentrione, mentre il Sud sarà desertificato”.
Già deprecato per le troppe nascite, e per una condizione vile della donna-madre, il Sud dunque sta per diventare disabitato. Desertificato no, sarà degli africani – come in Provenza già da mezzo secolo, e nel Golfo del Léon.
 
E la luce venne da Cosenza
C’è oggi Mauro Fiore, direttore della fotografia premio Oscar, per “Avatar”. C’è stato un secolo fa Tony Gaudio, primo italiano premio Oscar, per la fotografia. Entrambi di Cosenza – la città, si direbbe, della luce, per lo meno al cinema.
Di Gaudio fa la (ri)scoperta un altro cosentino, Alessandro Nucci, regista, che col fratello Fabrizio, produttore, ne ricostituisce la vicenda in “The Lost Legacy of Tony Gaudio”. Di cui dice a Ornella Sgroi sul “Corriere della sera”: è il direttore della fotografia che tra il 1920 e il 1930 “rivoluzionò la grammatica del cinema”. Emigrato da Cosenza nel 1906, quindi a 23 anni. Già tre anni dopo era direttore della fotografia a Hollywood – lavorerà a un centinaio di film, anche tre e quattro in un anno. Oscar nel 1937, per il film “Avorio nero” (“Anthony Adverse”) di Mervyn LeRoy - l’Academy lo registra nel 1936, Oscar per il bianco e nero (allora i premi erano due, uno per la novità colore).
Era figlio di un fotografo, Raffaele. E vantava in America, secondo alcune note biografiche (una biografia curata non c’è), la regia a vent’anni di un film, “Napoleone attraversa le Alpi”. Per la Ambrosio Film torinese, una casa di produzione conosciuta in America – Torino era allora la capitale di tutte le novità tecnologiche-industriali italiane, il cinema compreso, come le automobili e il telefono.
Alessandro e Fabrizio Nucci si sono imbattuti in Gaudio per caso. Cioè da cinefili. Curava l’estetica delle immagini ma anche la tecnica, spiega Alessandro: si deve a lui la pratica che se sullo schermo “vediamo una lampada, la luce deve apparire come se provenisse da quella lampada”. Sembra niente, ma fu “qualcosa di molto rivoluzionario per l’epoca, perché le pellicole erano molto sensibili e i mezzi tecnici richiedevano molta più luce di oggi”.
“È la «luce di precisione»”, continua Nucci, “come la definì lo stesso Tony Gaudio, che segnerà lo stile del film noir e di tutto il cinema anni Quaranta. Quello con Humphrey Bogart e Bette Davis”. Bette Davis creò un vero e proprio sodalizio con Gaudio, “perché lui riusciva a valorizzrla con una messa in scena innovativa per l’epoca”. Nucci esemplifica con “«Ombre malesi» di William Wyler, forse il capolavoro della collaborazione fra i due, in cui la luce diventa essa uno dei motori narrativi del film”.
 
Nove miliardi di sprechi, differenziati
Ci sono stati sprechi nell’autonomia non solo in Sicilia, anche in Lombardia e nel Veneto, forse di più: accanto alla buona amministrazione da vecchia Austria ci sono stati i palloni gonfiati della Lega recentemente - ma ormai la storia della Lega è cinquantennale. Ferruccio de Bortoli ne fa una denuncia, sul settimanale “L’Economia” di lunedì 9. A proposito delle autostrade regionali Pedemontana Veneta e Brebemi (Brescia-Bergamo-Milano) – di cui questo sito si è occupato http://www.antiit.com/2015/09/a-sud-del-sud-il-sud-visto-da-sotto-259_24.html
Una denuncia che non ha obiezioni. Dal titolo “Le autostrade dell’autonomia”, ossia “Le corsie del nulla al Nord”. Sommario: “Le due infrastrutture, per anni bandiera del federalismo in Lombardia e Veneto, non hanno portato al traffico i benefici preventivati. E le notevoli spese per ripianare le perdite, nonostante le tariffe salate pagate dai cittadini che le utilizzano, sono finite anche a carico dello Stato”. Hanno accumulato costi e debiti, a carico pubblico, senza beneficio per gli utenti. Ilustrano la denuncia le foto di due mediocri leghisti, che sono gli eroi della Lombardia e del Veneto, rispettivamente Fontana e Zaia. Le “due infrastrutture del titolo” sono le due autostrade,  Pedemontana veneta e Brebemi. Brutto prologo all’ “autonomia differenziata”, cioè privilegiata, bandiera del leghismo che attanaglia le due regioni pilota.
Testo: “Una meraviglia. Percorrere la nuova Pedemontana veneta è un’esperienza piacevole. Bella, pulita, elegante. E, soprattutto, vuota. Poi a Montecchio Maggiore Sud si arriva sulla A4 ed è l’inferno. Addirittura due corsie interamente occupate da file di mezzi pesanti. Rallentamenti, code. Dopo Brescia Ovest, per la fortuna del milanese di ritorno, si devia sulla mitica Brebemi, ormai non più nuova e altrettanto poco frequentata, se non spesso addirittura deserta. Una rassicurante distesa di asfalto che fende il cuore agricolo bresciano e bergamasco, in parallelo con l’alta velocità ferroviaria. L’automobilista si sente addirittura in colpa (anche se paga due euro ogni dieci chilometri) per aver sottratto tanta bella campagna al verde e alle colture. Qui la Lombardia sembra una regione spopolata. A differenza della sensazione di opprimente sovraffollamento — la sindrome della città infinita — che si prova sulla Milano-Bergamo-Brescia. Questi due progetti, la Pedemontana veneta e la Brebemi, cui si aggiunge l’ancora incompleta Pedemontana lombarda, sono stati per anni — nelle due grandi Regioni a guida leghista — la bandiera orgogliosamente sventolata del federalismo. La dimostrazione che il Nord produttivo era in grado di risolvere con progetti pubblico-privati i problemi della mobilità. Sarebbe opportuno chiedersi che cosa è andato veramente storto con questi progetti autostradali, costati finora complessivamente quasi 9 miliardi, se ne valesse veramente la pena”. Niente di meno.
Con notazioni sparse di questo tenore: “Viaggiare sulla Brebemi costa più del doppio della tratta che dovrebbe decongestionare. L’onere complessivo dell’opera è stimato (stimato?, n.d.r.) in 2,4 miliardi. All’inizio si pensava sarebbe costata un terzo. Per il dodicesimo anno consecutivo, nel 2023, il bilancio si è chiuso in perdita… (ma) l’azionista privato, la spagnola Aleatica, è ottimista, grazie alle garanzie offerte dal concedente pubblico”.
“E abbiamo sacrificato 990 ettari sottratti alla migliore agricolturea”, de Bortoli fa commentare a Dario Balotta, ex sindacalista Cisl oggi in politica con i Verdi: “Mezzo miliardo di perdite accumulate in dodici anni. Una concessione di 19 anni poi allungata di 6 e infine di altri 7 anni”. E non vi è stato il decongestionamento della A4”.
Poi de Bortoli riprende il filo: “Un obiettivo analogo è anche quello della Pedemontana lombarda, che dovrebbe togliere pressione al traffico sulla tangenziale milanese. È costata finora 2,5 miliardi. Parte degli oneri del controllo regionale — che ha rilevato anche la quota di Intesa Sanpaolo — sono stati scaricati sulle Ferrovie Nord.
“È curioso che vi sia un azionista spagnolo (Sacyr) anche nella Pedemontana veneta (Spv). Non appare preoccupato più di tanto visto che il rischio d’impresa è anche in questo caso in carico al concedente, cioè la Regione Veneto…..La preoccupazione per l’andamento dei conti della Pedemontana, sui quali non vi è ancora la necessaria chiarezza, è però tale da aver indotto il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini, a studiare una possibile nazionalizzazione del fiore all’occhiello del federalismo veneto. Sarebbe il colmo”.
 
La Pedemontana lombarda, si può aggiungere, già segnalata su questo sito,
http://www.antiit.com/2017/06/a-sud-del-sud-il-sud-visto-da-sotto-330.html,
avrebbe meritato più delle poche righe della citazione. De Bortoli non se ne occupa perché è un progetto varato dal vecchio Cipe, quindi formalmente statale, ma di fatto è regionale, vecchio pallino di Maroni, allora secondo di Bossi nella Lega, e presidente della Regione Lombardia. Ferma al 2015 non per colpa dello Stato, aperta su 22 dei 96 km del progetto, sotto minaccia di fallimento per molti anni, fino al 2021. Figura – figurava - un “project financing”, cioè un investimento privato, una infrastruttura in concessione. Ma era il progetto di Maroni. Controllato dall’azienda regionale Serravalle - presidente nel 2015 Di Pietro (lui, Antonio Di Pietro, dopo la fuga dalla politica, voluto da Maroni per evitare il fallimento in Tribunale). Un manufatto costosissimo, esito di decenni di studi, consulenze, prospezioni, etc., di ingegneri, geologi, geometri, esperti ambientali, architetti, urbanisti, e moltissimi avvocati. Un investimento privato-pubblico in realtà: statale, regionale e privato. Da 4, poi 5, miliardi. Per 67 km., da Varese-Malpensa a Bergamo (da Cassano Magnano a Orio Sotto). Sette milioni e mezzo a km., in piano, record mondiale di costo. Uno scandalo, di cui però non si parla.
Doveva essere pronta per l’Expo, 2015. Poi per fine 2017. Insomma, uno scandalo dei maggiori. Ma non ne sappiamo molto.
 
Cronache della differenza: Calabria
“I Leoni di Sicilia”, sulle fortune dei Florio, debutta in tv con un falso terremoto di Bagnara, datato peraltro variamente, 1802, 1799 e 1788 (ma il falso è di Auci, l’autrice del romanzo dei “Leoni”?). Il terremoto connota la Calabria - la storia della Calabria, più che politica o sociale, è sismica, di distruzioni a catena, l’una sull’altra.

Paolo Florio emigrò per cercare fortuna, sulla traccia di parenti e paesani già a Palermo. Era un commerciante, e si vede che i commercianti di Bagnar sono o erano specialmente intraprendenti - la fama è ancor a recente delle bagnarote, donne intrepide dalle sette gonne e i piedi scalzi, con molti figli ma non un marito, in testa una cesta larga, che hanno fatto per secoli il piccolo commercio nei paesi sparsi per il versante tirrenico della Montagna (Aspromonte). Però, il terremoto è congrua causa, delle fortune future, fuori dalla Calabria.
 
Castrolibero, un paese di Cosenza di diecimila abitanti, ha tutte le case finite col tetto, e un reddito medio pro capite di 21 mila euro, contro una media regionale di 16 mila. “Da noi non c’è una casa non finita”, può vantare il sindaco Orlandino Greco, “in caso di piccoli abusi siamo intervenuti con le ordinanze di decoro urbano”. Cioè, la Calabria è un territorio che si può amministrare.
 
Giuseppe Santelli, editore, avendo ereditato la casa editrice dal padre, la trasferisce a Milano, e in pochi anni o pochi mesi, dice, la trasforma in “una holding che ragguppa cinque marchi editoriali e distribuisce in dieci nazioni”. Commentando il miracolo con quanto gli aveva detto un amico, anche lui transfuga dalla Calabria: “Dopo che nella nostra regione siamo abituati a fare la corsa a ostacoli, quando hai davanti i 100 metri voli e superi tutti gli altri”. Tutti probabilmente no, ma vai diretto.
 
“Gramsci dice una cosa molto importante”, nota Saverio Strati in un’intervistona col “Quotidiano di Calabria” nel 2009, riprodotta dal giornale il 14 agosto: “Molto lusinghiera per i calabresi: un contadino calabrese è più filosofo di un filosofo che insegna in un0’università tedesca. Ed è vero”, aggiungeva lo scrittore.
La stessa cosa diceva del montanaro svevo Heidegger – c’è più “filosofo” di Heidegger? – uscendo dalla sua amata Hütte di 
montagna, ma si può convenire. Anche se il contadino di Gramsci era calabrese per modo di dire, avrebbe potuto essere sardo.

 
L’intendente napoleonico Briot, trasferito da Chieti a Cosenza (dove fonderà, vecchio giacobino, la prima loggia carbonara), nel 1807, si diceva, scrivendo all’ex segretario all’intendenza Giuseppe Ravizza, meravigliato di trovarvi “molti uomini veramente civilizzati”. E concludeva: “I Calabresi sono uomini come tutti gli altri”. Il Gran Tour e l’occupazione napoleonica, fonte anch’essa di molte memorie, sono stati letali. La storia, anche documentata, faticherà a liberarsene – il documento si può “leggere” in vario modo.
 
“La tarantella è la nostra pizzica, che può attirare turisti in Calabria”. Tutto ultimamente è turismo in Calabria, forse la regione meno adatta all’albergheria – organizzazione, tatto, garbo (il cliente ha sempre ragione), affidabilità, e mestiere e durata invece dell’improvvisazione – prendi i soldi e scappa.
 
O lo è della sua stampa? Le cronache locali sono ultimamente decadute, insieme col giornalismo – ci vuole abilità giornalistica per far vivere sulla pagina comunità spesso spente. Siccome nel 2024 le cronache nazionali e i tg sono pieni di alberghi pieni, il giornale calabrese, nel suo piccolo, si adegua?


leuzzi@antiit.eu 

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