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mercoledì 18 settembre 2024

Il narratore Pasternàk inappetente

“La nube diede un’occhiata alle stoppie basse, cotte dal sole. Si stendevano fino all’orizzonte… La nube ricadde sulle zampe anteriori e, attraversando lenta la strada, scivolò silenziosa lungo la quarta rotaia”. C’è una bambinaia. C’è un bambino che striscia, “fino al rubinetto dell’acqua”. Ci sono i genitori del bambino rapito che ancora non lo sanno e si recano al porto a salutare l’amico di lui, “il guardiamarina che un tempo aveva amato lei”. E poi, dopo quindici anni, ci sono le “vie aeree”: “Le vie aeree per le quali, come treni, partivano quotidianamente i pensieri rettilinei di Liebknecht, di Lenin e di altri spiriti del loro calibro…. Era il cielo dela Terza Internazionale”. Sotto il quale lei ritrova lui, “membro del Presidio del Comitato esecutivo provinciale”, gli fa parte che il bambino era suo… La traccia di un romanzo?
Un libro prezioso, perché di racconti singolarmente inanimati, tradotti in fretta e pubblicati sulla scia del “Dottor Živago”. Nella veste che oggi appare lussuosa della vecchia Universale Einaudi, grafica, carta, dorso che imita la cucitura, copertina protetta da velina solida, scheda bibliografica. Racconti poveri. Pieni di parole, esagerati linguisticamente, ma poco significanti, nei personaggi o caratteri, nelle vicende.
È la prima raccolta pubblicata in traduzione, nel 1960, dei racconti di Pasternàk, col racconto lungo del titolo, “Il rìtratto di Apelle”, “Le vie aeree”, e un altro testo lungo dal titolo “Racconto”. Verrà ripresa negli Oscar Mondadori nella stessa traduzione, di Clara Coisson, con l’aggiunta di “Lettera da Tula” e “Disamore”, postfazione (tiepida) di Vittorio Strada. E da Studio Tesi con una nuova traduzione, e l’aggiunta di “Lettera da Tula” e “Storia di una controttava”.
Einaudi contro Feltrinelli, beneficiario del boom “Živago”, ha arruolato lo slavista allora principe, Angelo Maria Ripellino, che la prefazione fa breve, e stroncatoria. Proprio così, e non proprio tra le righe – in questa accoppiata la pubblicazione si può dire eccezionale. Ripellino parte denunciando “abusioni stilistiche”, abusi. E a seguire “una prosa convulsa, come il salto del cavallo nel giuoco degli scacchi”. Per concludere: “La dovizia dei particolari sommerge l’insieme” - con l’aggiunta perfida: “Come accade d’altronde nei poemi”.
Onestamente ha premesso, in apertura del saggio: “I racconti in questo volume risalgono alla giovinezza di Pasternàk”, sono “caratteristiche prove di un poeta lirico”, e “non tutti hanno uguale valore”. Salva solo il racconto del titolo, del 1918, che “ha la stessa sostanza verbale delle migliori liriche di Pasternàk”, e “può servire di chiave all’intendimento di tutta la sua creazione”. La novità essendo “l’innesto dell’analisi psicologica con il vivido metaforismo tipico della scuola cubofuturistica”. Non risolto però, rigido, da programma o scuola.
Di fatto - Ripellino lo ribadisce più in là - aggravato, da un “assieparsi dinamico delle metafore in una sorta di pantomima, di colorito «Mysterienspiel» del linguaggio”. E intende un linguaggio allusivo. Per una chiusa micidiale, tanto più per un lettore come lui, di suo anche poeta fiorito: “È un giuoco analogico, simile a quello dei clowns e dei bambini, che scambiano la doccia per telefono”. Prose farcite di “feticci verbali, come arroganti arabeschi, senza nesso col racconto”, e “povere di avvenimenti, ma in cambio quante notazioni sul variare del tempo, sulle qualità delle stagioni, sui gesti della natura”.
“L’infanzia di Ženja Ljuvers” fa la psicologia di un’adolescente, e in questo è una novità: mette in scena paure, ansie, sensi di colpa, infatuazioni, abbandoni. Di un’adolescente per la prima volta slegata dalla famiglia – come di fatto avveniva, ricorderà lo stesso Pasternak nell’“Autobiografia”: “Tutto ciò che i figli ricevevano dai genitori arrivava nel momento sbagliato, dal di fuori, ed essi sentivano che non era voluto da loro ma dovuto a cause estranee…”.  
“Il tratto di Apelle” è l’Italia come si figurava, vista da Heine, del classicismo – un’Italia che Pasternak conosceva poco, ma gli serviva per uscire dal romanticismo di gioventù - “Lettere da Tula”, 1918, spiegherà questo distacco, da tutto ciò che è o si vuole “artistico”, cioè autoreferente, snob, “decadente”. Nel racconto senza titolo, “Racconto”, la reviviscenza della vecchia Mosca nel dormiveglia di un soldato reduce da non si sa quale fronte nel 1918, se dei Rossi o dei Bianchi, e nella memoria e le attività della sorella che lo ospita, sempre più pragmatica, prima e ora, del fratello sognatore. Un testo lungo, frammentario e circostanziato, profuso in ogni lacerto, con alcune figure sbalzate con cura ma non interrelate – abbozzo di un romanzo? L’unico filo vede Serjoža, il reduce, istitutore a Mosca prima della guerra, che non sapendo come fare fa una proposta di matrimonio all’istitutrice di una delle case in cui ha lavorato, confondendola. Terminata l’esposizione dell’aggrovigliata dichiarazione decide di scrivere una storia, e per una quindicina di pagine vi si dedica, di fatto accumulando riflessioni sullo scrivere.
Molto è stato perdonato a Pasternàk in virtù del romanzo. Le prose sparse non sono memorabili, se non per il linguaggio bizzarro – studiato per esserlo, da poeta mestierante delle avanguardie. Una prosa dalle volute artificiose. Comune peraltro all’altro grande narratore russo del primo Novecento, Nabokov, anche lui autore in definitiva di un solo romanzo - narratore però più consistente, convinto.
Boris L. Pasternàk, L’infanzia di Ženja Ljuvers, Universale Einaudi, pp. XI + 208 pp.vv.

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