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Il narratore Pasternàk inappetente
“La nube diede un’occhiata
alle stoppie basse, cotte dal sole. Si stendevano fino all’orizzonte… La nube
ricadde sulle zampe anteriori e, attraversando lenta la strada, scivolò
silenziosa lungo la quarta rotaia”. C’è una bambinaia. C’è un bambino che striscia,
“fino al rubinetto dell’acqua”. Ci sono i genitori del bambino rapito che ancora
non lo sanno e si recano al porto a salutare l’amico di lui, “il guardiamarina
che un tempo aveva amato lei”. E poi, dopo quindici anni, ci sono le “vie aeree”:
“Le vie aeree per le quali, come treni, partivano quotidianamente i pensieri rettilinei
di Liebknecht, di Lenin e di altri spiriti del loro calibro…. Era il cielo dela
Terza Internazionale”. Sotto il quale lei ritrova lui, “membro del Presidio del
Comitato esecutivo provinciale”, gli fa parte che il bambino era suo… La traccia
di un romanzo?
Un libro prezioso, perché
di racconti singolarmente inanimati, tradotti in fretta e pubblicati sulla scia
del “Dottor Živago”. Nella veste che oggi appare lussuosa della vecchia
Universale Einaudi, grafica, carta, dorso che imita la cucitura, copertina
protetta da velina solida, scheda bibliografica. Racconti poveri. Pieni di parole,
esagerati linguisticamente, ma poco significanti, nei personaggi o caratteri,
nelle vicende.
È la prima raccolta
pubblicata in traduzione, nel 1960, dei racconti di Pasternàk, col racconto lungo
del titolo, “Il rìtratto di Apelle”, “Le vie aeree”, e un altro testo lungo dal
titolo “Racconto”. Verrà ripresa negli Oscar Mondadori nella stessa traduzione,
di Clara Coisson, con l’aggiunta di “Lettera da Tula” e “Disamore”, postfazione
(tiepida) di Vittorio Strada. E da Studio Tesi con una nuova traduzione, e l’aggiunta
di “Lettera da Tula” e “Storia di una controttava”.
Einaudi contro Feltrinelli,
beneficiario del boom “Živago”, ha arruolato lo slavista allora
principe, Angelo Maria Ripellino, che la prefazione fa breve, e stroncatoria.
Proprio così, e non proprio tra le righe – in questa accoppiata la pubblicazione
si può dire eccezionale. Ripellino parte denunciando “abusioni stilistiche”,
abusi. E a seguire “una prosa convulsa, come il salto del cavallo nel giuoco
degli scacchi”. Per concludere: “La dovizia dei particolari sommerge l’insieme”
- con l’aggiunta perfida: “Come accade d’altronde nei poemi”.
Onestamente ha premesso,
in apertura del saggio: “I racconti in questo volume risalgono alla giovinezza
di Pasternàk”, sono “caratteristiche prove di un poeta lirico”, e “non tutti
hanno uguale valore”. Salva solo il racconto del titolo, del 1918, che “ha la
stessa sostanza verbale delle migliori liriche di Pasternàk”, e “può servire di
chiave all’intendimento di tutta la sua creazione”. La novità essendo “l’innesto
dell’analisi psicologica con il vivido metaforismo tipico della scuola
cubofuturistica”. Non risolto però, rigido, da programma o scuola.
Di fatto - Ripellino lo ribadisce
più in là - aggravato, da un “assieparsi dinamico delle metafore in una sorta
di pantomima, di colorito «Mysterienspiel» del linguaggio”. E intende un linguaggio
allusivo. Per una chiusa micidiale, tanto più per un lettore come lui, di suo
anche poeta fiorito: “È un giuoco analogico, simile a quello dei clowns e dei
bambini, che scambiano la doccia per telefono”. Prose farcite di “feticci
verbali, come arroganti arabeschi, senza nesso col racconto”, e “povere di
avvenimenti, ma in cambio quante notazioni sul variare del tempo, sulle qualità
delle stagioni, sui gesti della natura”.
“L’infanzia di Ženja Ljuvers” fa la psicologia di un’adolescente, e in
questo è una novità: mette in scena paure, ansie, sensi di colpa, infatuazioni,
abbandoni. Di un’adolescente per la prima volta slegata dalla famiglia – come di
fatto avveniva, ricorderà lo stesso Pasternak nell’“Autobiografia”: “Tutto ciò
che i figli ricevevano dai genitori arrivava nel momento sbagliato, dal di
fuori, ed essi sentivano che non era voluto da loro ma dovuto a cause
estranee…”.
“Il tratto di Apelle” è
l’Italia come si figurava, vista da Heine, del classicismo – un’Italia che
Pasternak conosceva poco, ma gli serviva per uscire dal romanticismo di
gioventù - “Lettere da Tula”, 1918, spiegherà
questo distacco, da tutto ciò che è o si vuole “artistico”, cioè autoreferente,
snob, “decadente”. Nel racconto senza titolo, “Racconto”, la reviviscenza
della vecchia Mosca nel dormiveglia di un soldato reduce da non si sa quale
fronte nel 1918, se dei Rossi o dei Bianchi, e nella memoria e le attività della
sorella che lo ospita, sempre più pragmatica, prima e ora, del fratello
sognatore. Un testo lungo, frammentario e circostanziato, profuso in ogni
lacerto, con alcune figure sbalzate con cura ma non interrelate – abbozzo di un
romanzo? L’unico filo vede Serjoža, il reduce, istitutore a Mosca prima della
guerra, che non sapendo come fare fa una proposta di matrimonio all’istitutrice
di una delle case in cui ha lavorato, confondendola. Terminata l’esposizione
dell’aggrovigliata dichiarazione decide di scrivere una storia, e per una
quindicina di pagine vi si dedica, di fatto accumulando riflessioni sullo
scrivere.
Molto è stato perdonato a
Pasternàk in virtù del romanzo. Le prose sparse non sono memorabili, se non per
il linguaggio bizzarro – studiato per esserlo, da poeta mestierante delle
avanguardie. Una prosa dalle volute artificiose. Comune peraltro all’altro grande
narratore russo del primo Novecento, Nabokov, anche lui autore in definitiva di
un solo romanzo - narratore però più consistente, convinto.
Boris L. Pasternàk, L’infanzia di Ženja Ljuvers,
Universale Einaudi, pp. XI + 208 pp.vv.
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