Un’opera tra
forme solide (geometriche) e allestimento. Si entra passando sotto tubi
gonfiabili appesi al soffitto: sono i Phallus Mobilis, che introducono
a un tunnel trasparente. Si passa dentro il tunnel tra palloncini colorati,
che rappresentano l’ovulazione-gestazione. Il tunnel è collegato a un
compressore esterno tramite un tubo, che sarebbe il cordone ombelicale. Una
mostra semplice, che l’artista così presentava: Volevo
che tutti gli spettatori tornassero alle loro origini, al luogo in cui un tempo eravamo, nel grembo delle
nostre madri, un’immagine molto poetica». Léa Lublin è
nata nel 1929 in Polonia, a Lublino. Da genitori ebrei che due-tre anni dopo
emigrarono in Argentina. Nella seconda parte della sua vita e della sua
attività si è trasferita in Francia - dove poi è morta, a Dieppe (1999) - e
figura artista franco-argentina. Nel 2015 il Madre di Napoli l’ha celebrata
con una mostra, in coproduzione con il Lenbachhaus di Monaco. Il Maxxi di
Alessandro Giuli, da ieri ministro della Cultura, ha voluto onorarla
ricostruendo l’allestimento da lei presentato il 30 aprile 1970 a Medellin in
Colombia, alla seconda Biennale locale d’arte. Con una didascalia
lusinghiera: “Iconoclasta, radicale, emblematica. Con i suoi lavori
ambientali Léa Lublin decostruisce e sfida le strutture di
dominazione temporale o di controllo mentale - coloniale, imperialista,
paternalista”. Ma anche pittrice insoddisfatta dei limiti della pittura. In Francia
partecipò alle mostre come perfomances di artista. Famosa per “Mon
fils”, una performance del 1968 in cui portava il suo bambino per i
musei, nelle ore di apertura, e gli cambiava i pannolini, lo allattava, lo
addormentava, praticava le occorrenze della vita quotidiana. Successivamente
tornata alla pittura figurativa, “al Rinascimento” diceva, si specializzò con
criteri psicoanalitici a separare il Bambino dalla Madre nei quadri delle
Madonne. E a figurare il bambino come l’artista stesso, osservatore della
madre nella sua corporeità, in immagini eroticizzate – “per rivelare i
sottintesi sessuali dell’immaginario cristiano”. Un documento
d’epoca. Ma un’arte non significante a distanza, neanche come proposito, come
arte dialettica. Per quanto ingegnosa nell’uso di materiali. Manca a distanza
anche la sorpresa, l’ingrediente delle performances. Tanto più negli
impossibili, forse ingestibili parallelepipedi di Zaha Hadid adibiti a Maxxi.
Spazi enormi vuoti e mostre su per scalette, corridoi, alte pareti, piccole
didascalie. Spazi che impediscono ogni immedesimazione o emozione, solo di
fastidio. Perfino per l’aria condizionata, pure benefica nella calura di Rma,
per il dispendio che si presume di energia, tra riscaldamento e
condizionamento di quegli spazi enormi, inutili, e quindi anche ingestibili. Un’opera in
“PVC, nylon, tubi, T-Shirt dipinte e bianche, acqua, compressore radiale,
schiuma, valvole, ganci, legno.”, promette la locandina.
L’esposizione è nel quadro della mostra “Ambienti 1956-2010. Environments by
Women Artists II”, ideata e realizzata da Andrea Lissoni come “un’inedita
ricerca sul contributo femminile, spesso trascurato, nella storia e nella
creazione di ambienti immersivi” – il 2020 è stato scelto come termine perché
si ultimava la costruzione del Maxxi. |
Léa Lublin, Penetraciòn/Expulsiòn (del Fluvio Subtunal), 1970, Maxxi Roma
|
Nessun commento:
Posta un commento