sabato 7 settembre 2024

La vita nel tubo

Un’opera tra forme solide (geometriche) e allestimento. Si entra passando sotto tubi gonfiabili appesi al soffitto: sono i Phallus Mobilis, che introducono a un tunnel trasparente. Si passa dentro il tunnel tra palloncini colorati, che rappresentano l’ovulazione-gestazione. Il tunnel è collegato a un compressore esterno tramite un tubo, che sarebbe il cordone ombelicale. Una mostra semplice, che l’artista così presentava: Volevo che tutti gli spettatori tornassero alle loro origini, al luogo in cui un tempo eravamo, nel grembo delle nostre madri, un’immagine molto poetica».

Léa Lublin è nata nel 1929 in Polonia, a Lublino. Da genitori ebrei che due-tre anni dopo emigrarono in Argentina. Nella seconda parte della sua vita e della sua attività si è trasferita in Francia - dove poi è morta, a Dieppe (1999) - e figura artista franco-argentina. Nel 2015 il Madre di Napoli l’ha celebrata con una mostra, in coproduzione con il Lenbachhaus di Monaco. Il Maxxi di Alessandro Giuli, da ieri ministro della Cultura, ha voluto onorarla ricostruendo l’allestimento da lei presentato il 30 aprile 1970 a Medellin in Colombia, alla seconda Biennale locale d’arte. Con una didascalia lusinghiera: “Iconoclasta, radicale, emblematica. Con i suoi lavori ambientali Léa Lublin decostruisce e sfida le strutture di dominazione temporale o di controllo mentale - coloniale, imperialista, paternalista”. Ma anche pittrice insoddisfatta dei limiti della pittura.

In Francia partecipò alle mostre come perfomances di artista. Famosa per “Mon fils”, una performance del 1968 in cui portava il suo bambino per i musei, nelle ore di apertura, e gli cambiava i pannolini, lo allattava, lo addormentava, praticava le occorrenze della vita quotidiana. Successivamente tornata alla pittura figurativa, “al Rinascimento” diceva, si specializzò con criteri psicoanalitici a separare il Bambino dalla Madre nei quadri delle Madonne. E a figurare il bambino come l’artista stesso, osservatore della madre nella sua corporeità, in immagini eroticizzate – “per rivelare i sottintesi sessuali dell’immaginario cristiano”.

Un documento d’epoca. Ma un’arte non significante a distanza, neanche come proposito, come arte dialettica. Per quanto ingegnosa nell’uso di materiali. Manca a distanza anche la sorpresa, l’ingrediente delle performances. Tanto più negli impossibili, forse ingestibili parallelepipedi di Zaha Hadid adibiti a Maxxi. Spazi enormi vuoti e mostre su per scalette, corridoi, alte pareti, piccole didascalie. Spazi che impediscono ogni immedesimazione o emozione, solo di fastidio. Perfino per l’aria condizionata, pure benefica nella calura di Rma, per il dispendio che si presume di energia, tra riscaldamento e condizionamento di quegli spazi enormi, inutili, e quindi anche ingestibili.

Un’opera in “PVC, nylon, tubi, T-Shirt dipinte e bianche, acqua, compressore radiale, schiuma, valvole, ganci, legno.”, promette la locandina. L’esposizione è nel quadro della mostra “Ambienti 1956-2010. Environments by Women Artists II”, ideata e realizzata da Andrea Lissoni come “un’inedita ricerca sul contributo femminile, spesso trascurato, nella storia e nella creazione di ambienti immersivi” – il 2020 è stato scelto come termine perché si ultimava la costruzione del Maxxi.

Léa Lublin, Penetraciòn/Expulsiòn (del Fluvio Subtunal), 1970, Maxxi Roma

Léa Lublin, Penetraciòn/Expulsiòn (del Fluvio Subtunal), 1970, Maxxi Roma


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