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mercoledì 16 ottobre 2024

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (574))

Giuseppe Leuzzi
 
La definzione dei Lep, “livelli essenziali delle prestazioni”, centrali nella nuova legge ipearutonomista – la ri-definizione dei Lep, che sono in Costituzione già da una ventina di anni - i leghisti elegantemente assegnano a una ipereleghista, Elena D’Orlando. Una giurista, che ha lavorato per Zaia e Calderoli. L’eleganza della Lega non sorprende, si divora anche le briciole, ma com’è che questo governo si regge sui voti del Sud?
 
I treni che si fermano per il chiodo nel filo riportano dritto al brigante Musolino, che finita la latitanza per avere inciampato, braccato dai Carabinieri, in un filo avrebbe eslamato: “Malidittu chillu filu” – o avrebbe avuto tempo di dirlo dopo l’arresto, o di raccontarlo ai compagni di carcere. È l’Italia che è diventata meridionale,calabrese, aspromontana? O è l’Italia dei fili?
 
Va al Sud il record delle tv locali, secondo il censimento AerAnti-Corallo, anche se il mercato pubblicitario vi è ristretto, per non dire irrisorio. Delle 254 emittenti locali censite, 115 sono al Sud, 59 al Centro e 80 al Nord. La Lombardia ne ha 27, la Campania 31, la Sicilia 34.  
Sul totale dei ricavi, 189 milioni, meno di un milione a emittente, due terzi vanno al Nord, 124, e solo 35 al Meridione, quindi un quarto di milione per ogni emittente. Di che vivono allora tutte queste tv? Degli “altri ricavi e proventi”: i contributi pubblici e il mercato delle frequenze – che sono anch’esse pubbliche. Gli “altri ricavi” rendono di più,  264 milioni. Un mercato, insomma, sempre di sussidi. Che nturalmengte vanno soprattutto al Nord, per più della metà, 147 milioni. Al Sud ne vanno 87, e questo basta – sono più del doppio dei ricavi industriali,
 
Pavese calabrese – più che un caso (5)
Su Pavese a Brancaleone molto è stato raccolto, con un paio di testimonianze anche di prima mano, da Domenico Zappone, lo scrittore calabrese, in un reportage sulla “Gazzetta del Sud” l’1 agosto 1958. Molto che richiama “Il carcere”, la novella del confino, ma molto anche di prima mano.
Il paese era nel 1958 come ai tempi di Pavese venti anni prima – oggi è un centro turistico marino: “Una lunga strada parallela alla spiaggia fiancheggiata di basse case tutte stinte, corrose dalla salsedine, anonime e precarie così come si legge ne ‘Il carcere’”. Di Pavese non c’è nessun ricordo. I vecchi in piazza ci provano, ma il nome non dice loro nulla né la condizione – “i confinati erano tanti”. Il maresciallo dei Carabinieri che lo controllava, Mariano Riccioppo, “è morto da tempo. Sono morti il suo padrone di casa e alcuni dei suoi allievi (Pavese passava alcune ore della mattina insegnando a una mezza dozzina di ragazzi, nella sua stessa camera-abitazione, n.d.r.). Le lettere che scrisse agli amici sono state perdute”. Ma due suoi scolari – ragazzi in età, che furono anche suoi amici all’osteria (ce n’è traccia ne “Il carcere”) sono vivi e ricordano bene. Oreste Politi, “che oggi fa l’impresario edile”, mantenne i contatti fino al ferale 1950: “«La tua cassetta natalizia mi ha ricordato i giorni e gli odori di Brancaleone» mi scriveva nel gennaio del 1950, e prometteva un suo ritorno per l’estate per studiare da vicino questa parte della Calabria, certo la più povera e la più negletta. Diceva di volere arrivare fino a Africo, a Chorìo e a Roghudi per ambientarvi un racconto. «Voglio farmi una mangiata di lumache e svuotare una bottiglia di vino greco» scriveva ancora, ed era il giugno dello stesso anno.Prometteva che sarebbe venuto ai primi di settembre”.
Politi lo ricorda “di una compostezza sconcertante” quando insegnava, “non sorrideva né scherzava mai”. Fuori invece s’intratteneva volentieri, “si divertiva alla nostra spensieratezza, ai nostri bizzarri umori di ragazzi”. Erano peraltro allievi già adulti: “Con Domenico Mangraviti e Angelo Palermiti fui tra i suoi primissimi allievi”, continua Politi: “C’era con noi anche la figlia del maresciallo, ma a questa dava lezioni in caserma”. Le lezioni erano di lettere e lingue straniere – un modo per passare il tempo, dice Politi, e per raggranellare qualcosa: “Noi ci mettevamo seduti sulle tavole del letto, mentre lui occupava l’unica sedia”.
Con Politi il legame fu stabile nei mesi del confino: “Noi due eravamo coetanei e delle stesse idee politiche”, e “impiegammo ben poco a simpatizzare, per quanto avesse un carattere  tutt’altro che facile”. Evitava gli altri confinati, ma non la politica. Polemizzava coi fascisti, “senza ac
redine”, ma “a volte s’accendeva in viso e gesticolava”.

Pietro Spinella, altro allievo e amico, ricorda che divenne “professore” in paese per automatismo: “Non già per la posizione di confinato e per gli occhiali spessi, cerchiati di tartaruga, massicci, che lo facevano decisamente uomo di studi, quanto per quel suo fumare la pipa, pur essendo così giovane. Ai nostri paesi fumano la pipa soltanto i vecchi, che, pertanto, sono considerati saggi”.
Politi lo ricorda socievole, ma malinconico. “A mezzogiorno andava all’osteria di Giovanni Bello…. Naturalmente con la pipa in bocca. Era di una frugalità spartana. Cortese con tutti, pure evitava di intavolare discorsi con la gente” – ne “Il carcere”, invece , all’osteria incontra gente, soprattutto giovani, che lo interessano. Faceva il bagno il pomeriggio, “essendo a quell’ora la spiaggia quasi deserta”. Faceva lunghe escursioni nei dintorni, talvolta in bicicletta: “Quasi sempre lo accompagnavamo noi ragazzi, facevamo gare spassosissime di velocità, noi a piedi e lui in bicicletta”. Spensierato (“felice”) lo ricorda una sola volta, alla “Festa del riposo”. Una festa inventata dal medico di Brancaleone, il dottor Vincenzo De Angelis, “antifascista irriducibile”, quando Mussolini abolì il Primo Maggio, la Festa del lavoro. Il medico allora fece una festa “sul cocuzzolo del paese vecchio” – un posto che anche Pavese ricorda, dove c’era un confinato molto impegnato politicamente, che lui evitava – e la chiamò Festa del riposo: “Distribuì centinaia di fischietti, i cui sibili implicitamente erano diretti al fascismo”, e vino a fiumi. “Pavese fischiò con gli altri e fu contento”, racconta Politi: “Rientrato a casa, confessò di avere trascorso un giorno bellissimo”.
Scriveva anche. Secondo Politi “traduceva senza pentimenti e senza vocabolari, riempiendo  dozzine di quadernetti da due soldi che poi legava in volume”. A proposito dei quali ha un Pavese anche cospiratore: “Una volta ne fece recapitare uno a Torino per mezzo di un allievo”, che evidentemente partiva per Torino, “a una sua amica”. Raccomandando al ragazzo: “Non andare da mia sorella, non dire il tuo nome, né chi sei, dici solo che vieni da Brancaleone e nulla più”. E perché si ricordasse l’indirizzo dell’amica glielo crittografò: “Segnò come errori, in blu, certe parole di un compito, avendo cura che le iniziali, lette di seguito”, fornissero l’indirizzo, e “quanto al numero civico, segnò le ultime due cifre dell’anno di nascita di Napoleone”.
Zappone è un narratore, più che un reporter, quindi come testimone a volte è inattendibile. Ma i nomi che menziona, cinque o sei, sono reali – e leggevano la “Gazzetta del Sud”, un quotidiano allora molto diffuso. E non tutte le circostanze da lui registrate poteva trovarle ne “Il carcere”.
  
Primi in classifica, della povertà
Il Sud cresce di più del dato Italia, il Sud esporta di più (aumenta di più le esportazioni in un anno, in realtà esporta sempre poco e pochissimo), il Sud è “ripartito”. Poi arriva il Rapporto Eurostat 2024 e certifica che nel 2023 il Sud Italia è stato tra le aree dell’Unione europea con il più alto tasso di persone a rischio povertà o esclusione sociale. Con eccezioni, ma il dato complessivo è quello.
Peggio: l’ufficio statistico europeo assegna alla Calabria la palma di regione in Europa a più alto rischio di povertà o di esclusione sociale. Veramente l’ultimissima, col 49,5 per cento di indigenza, uno su due, è la Guyana francese, un “territorio” tra Brasile e Suriname, quello della Cayenna, ma conta solo 300 mila persone. La Calabria in realtà non è da meno, anch’essa ha un povero su due, seppure con una percentuale leggermente minore, il 48,6 per cento.
Il Sud si può dire non sfigura, in questa classifica della povertà potenziale. Nel 2023, attesta il rapporto sulle condizioni di vita in Europa dell’Ufficio statistico dell’Ue, la quota di persone a rischio di povertà o esclusione sociale più elevata, di almeno il 35,0 per cento, è stata rilevata in 19 regioni dell’Unione. Tre di queste sono del Sud Italia – del Sud di uno dei Sette Grandi dell’Occidente: la Calabria è seguita dalla Campania, col 44,4 per cento, e dalla Sicilia, col 41,4. Poco sotto la linea di guardia la Sardegna (32,9 per cento), la Puglia (32,2 per cento) e l’Abruzzo (28,6).
Per converso Eurostat attesta che delle cinque regioni europee più ricche ben due sono italiane, dell’Italia settentrionale: l’Emilia Romagna, con appena il 7,4 per cento di povertà potenziale, e la provincia di Bolzano col 5,8.
 
Basta poco
Alla ricerca di Corrado Alvaro nei suoi luoghi natii, negli anni 1960-1970, lo scrittore Domenico Zappone (“Il pane della Sibilla”) si imbatte in un problema: il legame costante nelle narrative dello scrittore col luogo natale, dal quale però si separò presto e al quale non tornò mai, se non in morte del padre. Un retaggio “naturale”? “Di questo paese povero di risorse e ricco di fantasie, incuneato in un angolo angusto di montagna…..per un dono divino, assommati in sé miti, fantasie e leggende della sua gente, ne ha fatto parlare gli abitanti come antichi eroi”. Più facile arguire che Alvaro, scrittore realista di grande fantasia, collocasse le sue creazioni in un luogo a lui noto ma remoto – San Luca e dintorni, lo Jonio, la Montagna come location, si direbbe oggi.
Zappone se ne dà un’altra ragione, da cronista che riferisce le cose, anche questa per altra ragione persuasiva: “Si badi alla leggiadria dei nomi delle valli, delle grotte, e dei monti, al paesaggio sconvolto e popolato di enigmi pietrificati, disseminato di spaventosi macigni affioranti dalle creste come vestigia di mostri, si ponga mente alle fantasiose leggende di cui sopra si parla, agli eroi che vi passarono, al Cristo di cui si dice come di persona conosciuta dai padri, all’esodo delle popolazioni, ed ecco in parte spiegati molti caratteri magici dell’arte di Alvaro”. Stiamo parlando di San Luca, il posto rude di “Gente in Aspromonte”, il pozzo senza fondo dei rapimenti di persona e della mafia della droga. E del “discorso della mafia”. Basta poco per cambiare la “natura” delle cose. Soprattutto parlandone –le parole non costano, anche se sono un’arma pericolosa: nei cinema, nelle televisioni, nelle carriere dei giudici – non c’è altra realtà che la parola che la dice.
“Qui tutto è bello e gentile”, può insistere lo stesso Zappone in altra occasione, parliamo sempre del temibilissimo San Luca: “I nomi delle grotte, ad esempio, sono fra i più graziosi: ce n’è una che è detta di «Sant’Anastasia», un’altra dei «Colombi», un’altra della «Sibilla». Suggestivi quelli delle valli; della «Castanìa», degli «Oleandri». Strani i nomi delle pietre («prache»): «Pietra Longa», «Pietra di Febo «Pietra Cappa», «di Mariantonia», dell’«Aquila», ed hanno forma di torri, di castelli, di fiori…”

leuzzi@antiit.eu

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