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martedì 22 ottobre 2024

L’Africa suo malgrado

 Mi raccomando, “stai sempre dalla parte dell’elefante”. Il saggio del titolo ironizza sulla “scrittura  dell’Africa” da parte di non africani – impersonati da un patroneggiante Kapuściński. Sui pregiudizi e luoghi comuni, decine, centinaia, migliaia di pregiudizi, o meglio modi di dire, compresa la sorta di politicamente corretto qual è il naturalismo.
“Il potere dell’amore”, altro saggio importante della raccolta, è una denuncia avvolgente, sarcastica nei fatti, ogni riga una sorpresa, del business della Cooperazione: “Le risorse versate sono incredibili: decine di migliaia di 4x4 stanno straziando il Paese alla ricerca di un progetto da amare”. Il cooperante tipo, un ragazzotto, è sbarcato zaino in spalla, ex barista a Londra, “e ora fa consulenza per le Nazioni Unite a 5 mila dollari al mese…. mentre i laureati del Kenya vendono frutta a bordo strada per un dollaro al giorno”. Tutta la rubrica tenuta per il settimanale sudafricano “Mail&Guardian” è una polemica serrata, ironica ma argomentata, con fatti straordinariamente veri, sulla cooperazione. Non solo i giovanotti sena mestiere a caccia di esperienze esotiche ben pagate, ma, poi, i progetti! Come la lavorazione del pesce per la quale i norvegesi hanno costruito una fabbrica, nel deserto kenyota.
La polemica non è nuova, è vecchia già di mezzo secolo e oltre, di quando le Nazioni Unite dichiaravano gli anni 1960 la “Decade dello Sviluppo”, grazie agli “aiuti” internazionali – l’Italia si affacciò a questo mercato vent’anni più tardi, con una legge del 1983 voluta da Pannella e votata da tutti, che creava la Cooperazione italiana, gestita dal ministero degli Esteri (da allora la maggiore occupazione del ministero), con an dotazione di duemila miliardi, rimasta poi immutata (oggi è un miliardo). Si seppe subito che ne beneficiavano solo le economie “donatrici”, sia degli aiuti bilaterali sia di quelli multilaterali, attraverso le numerose agenzie dell’Onu, e la stessa Banca Mondiale, creata a questo scopo. Compresi i loro cooperanti, giovani ambosessi a caccia di esotismi remunerativi, della borsa e della personalità. Wainana si fa leggere perché sa condire golosamente il sarcasmo. Solo l’ironia è efficace contro le anime buone degli “aiuti all’Africa”, come dire ai selvaggi.
La scoperta dell’Africa, diceva un insegnante alle medie, è stata fatta prima di Gesù Cristo (“hai fatto la scoperta dell’Africa, la quale è stata fatta….”). Ma in che modo? Quella di Wainana, lo scrittore kenyota-sudafricano morto cinque ani fa, è di nemmeno cinquant’anni fa. Il racconto più lungo e più famoso della raccolta, “Scoprire casa”, è letteralmente la scoperta del Kenya, dove Wainana è nato e cresciuto – lo scopre dopo avere studiato e vissuto in Sudafrica. Premiato, ma è un racconto semplice, di cose viste, fuori Nairobi, tra le varie tribù, con varie usanze, sorprendenti anche per lui, specie fra le donne, anzi fra le lolite. E questo dà da pensare – al lettore, non a Wainana, che la sua scoperta propone come uno schiaffo ai non-africani che blaterano di Africa. 
Il saggio fu scritto in polemica con Kapuściński, e con Bono Vox. Fu pubblicato su “Granta”, ebbe eco vasta –ancora oggi è il saggio più letto della rivista inglese – e gli procurò un paio di cause. Ma, se così è, si conferma lo stato pietoso in cui giace l’Africa, anche nelle tenzoni letterarie.

Dell’Africa reale un solo accenno Wainana dà nell’antologia, indirettamente, nella postfazione di Achal Prabala, lo scrittore e amico indiano che ha curato l’antologia (e ha provveduto a sistemare i saggi per tema, con una breve presentazione per ogni gruppo). Con “Scoprendo casa” si candidò al Cane Prize per la letteratura africana. “Gli organizzatori lo rifiutarono, spiegando che il loro era un premio serio e che quindi ammettevano soltanto scrittori seri pubblicati su giornali seri”. Al che Wainana poté obiettare: “Ah sì? In Africa nell’ultimo anno è stata pubblicata una sola antologia cartacea. Dove pensate di trovarli, i racconti?” Con i soldi del premio, Wainana poi fondò la “rivista letteraria che avrebbe voluto leggere”, che chiamò “Kwani”, embé? E subito poi ebbe fama internazionale in ambito anglosassone col saggio del titolo, pubblicato anche questo su “Granta”.
Di sé Wainana testimonia qui l’“erotomania culinaria”. Sa cucinare, ha riproposto decine di piatti africani, pescati qua e là nelle tante tradizioni locali del continente, e ne ha fatto pure la sua attività, per alcuni anni in Sud Africa, con un proprio ristorante in società con amici. Molte annotazioni culinarie ricorrono nei racconti. Ma di più ricorrono le storie di madre e di figlie. Più in generale la “diversità” dell’Africa racconta attraverso ritratti e ritrattini, ance solo lampi, femminili. Non c’è un problema di femminismo in Africa, di rivalsa – ma questo si sapeva dalla vecchia antropologia, l’Africa è matrilineare. Con una piccola rivalsa. Al tempo dell’imperialismo europeo c’era l’“odore dell’Africa”, se non dell’africano, al quale gli africani ribattevano che l’uomo bianco “puzza di cadavere”. Wainana non ne fa una discriminante, ma nota che “l’odore della ragazza bianca” è “come ragnatela nelle narici”.
Procede così, per frammenti, per lampi. Anche nei racconti più lunghi, elaborati. È così che è celebrato in ambito anglosassone per aver e destabilizzato il “discorso sull’Africa”, i modi di dire, anche i più partecipi. Sull’Africa senza fìgli africani. Delle anime buone della cooperazione come di ogni altro viaggiatore, analista, scrittore.
Con molti racconti nel racconto. Le ragazze Masai che si sposano a tredici anni per accumulare, presto e molto, a spese del marito. Le dame tutsi del Ruanda che non devono fare sforzi – in loro vece li fanno le serve hutu. La Grande Famiglia che si ritrova in Uganda per le nozze di diamante dei nonni materni, un centinaio di persone che non si conoscono – e la sorella amata della mamma che, vecchia, arriva da New York incrollabile tra mille incidenti. Altri testi sono per qualche verso scontati, meno sorprendenti. Haye-onWye in Galles, il paese delle mille librerie. La circoncisione, tra i kikuyu e le altre tribù, semprer varia. La personale “scoperta” delle tante tribù del Kenia, in aggiunta ai kikuyu della politica e degli affari, dei kalengju, dei masai, dei turkana, dei kamba. Dolo di sfuggita si dice della madre che è una tutsi – per dire che è, anche in età, una bella donna. Ma si pone il vecchio quesito imperialista: “Come si crea una nazione partendo da una quarantina di tribù”, di lingue, di usi?
Con rispetto per i riti cattolici, che la mamma pratica, meno per l’islam – a un certo punto si dice un amico corrotto da “tremila anni di frollatura mussulmana”. Con qualche scurrilità. Rara, ma aiuta a capire l’enigma del postumo incompleto (rielaborato lungamente) “Franza”, della pur timorata Ingeborg Bachmann: “donne tedesche arrapate” ricorrono, anche “bionde scandinave”, alla caccia dell’uomo nero. E c’è chi ricorre alla “DolceMamminaRicca in Germania” per promettere sfracelli a letto al prossimo incontro, mentre chiede soldi per “mantenere saldo il totem”.
Una raccolta rinfrescante. Di grande lettura, sempre per un qualche verso, anche per chi non sa o non vuole sapere di Africa. Di cose viste e di divagazioni. La “Donna Nandi” per cominciare che si ritrova sui muri in casa, la donna-divinità della tribù Nandi di cui infine scopre il mistero: è una “Gioconda” africana, una copia-adattamento. Il trapasso in cielo dopo morto, che è un discendere sulla terra, apre la raccolta – e qui è meglio il paratesto: Wainana ci teneva ma no lo ritrovava, avendolo confidato a un sito secondo lui poi scomparso, purification.com – che invece esisteva, ma si chiamava Pure Fiction.
Con un glossario, e alcune note bio-bibliografiche di orientamento. E con un’omissione. Chiunque può riconoscersi nelle decine, centinaia di modi di operare, dire, pensare l’Africa, anche in Africa, di cui Wainana fa la caricatura. Ma Wainana non dice - dieci anni fa. non un’eternità - l’essenziale: lo stato comatoso dell’Africa a quaranta, cinquanta, settant’anni dall’indipendenza. In Kenya, il suo paese, e in Sudafrica, dove ha vissuto felice, è un po’ meno vero – visse a Nairobi e a Città del Capo, che sono come tutte le città – ma anche lì tra prepotenze e corruzione. Questo sito dava cinque anni fa una lista deprimente della politica in Africa, all’insegna delle dittature di f atto, tutte più o meno corrotte:
http://www.antiit.com/2019/02/il-mondo-come-366.html
Pensare come avrebbe potuto essere la Costa d’Avorio, o il Senegal, il Dahomey-Benin, il Camerun, l’Angola, la Tanzania. O la Nigeria, che arrivava all’indipendenza col potenziale degli Stati Uniti nell’Ottocento, perfino con le stesse spinte secessioniste: popolazione, istruzione, territorio, e con la stessa “buona dose” di robber barrons, di attività furfantesche, ma redditizie e accumulative, ed è finita nella delinquenza minuta, dalla prostituzione alla moschea - mentre le casse nazionali dopo ogni elezione finiscono in Svizzera. E poi è vero che canto e ballo sono africani, non è un’offesa, sono belli da ascoltare e da vedere, anche sui campi di calcio.
Binyavaga Wainana, Come scrivere dell’Africa, 66thand2nd, pp. 420 € 18

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