L’Africa suo malgrado
Mi raccomando,
“stai sempre dalla parte dell’elefante”. Il saggio del titolo ironizza sulla “scrittura
dell’Africa” da parte di non africani –
impersonati da un patroneggiante Kapuściński. Sui pregiudizi e luoghi comuni, decine,
centinaia, migliaia di pregiudizi, o meglio modi di dire, compresa la sorta di politicamente
corretto qual è il naturalismo.
“Il potere
dell’amore”, altro saggio importante della raccolta, è una denuncia avvolgente,
sarcastica nei fatti, ogni riga una sorpresa, del business della Cooperazione:
“Le risorse versate sono incredibili: decine di migliaia di 4x4 stanno straziando
il Paese alla ricerca di un progetto da amare”. Il cooperante tipo, un ragazzotto,
è sbarcato zaino in spalla, ex barista a Londra, “e ora fa consulenza per le
Nazioni Unite a 5 mila dollari al mese…. mentre i laureati del Kenya vendono
frutta a bordo strada per un dollaro al giorno”. Tutta la rubrica tenuta per il
settimanale sudafricano “Mail&Guardian” è una polemica serrata, ironica ma
argomentata, con fatti straordinariamente veri, sulla cooperazione. Non solo i giovanotti
sena mestiere a caccia di esperienze esotiche ben pagate, ma, poi, i progetti!
Come la lavorazione del pesce per la quale i norvegesi hanno costruito una fabbrica,
nel deserto kenyota.
La polemica non è
nuova, è vecchia già di mezzo secolo e oltre, di quando le Nazioni Unite dichiaravano
gli anni 1960 la “Decade dello Sviluppo”, grazie agli “aiuti” internazionali –
l’Italia si affacciò a questo mercato vent’anni più tardi, con una legge del
1983 voluta da Pannella e votata da tutti, che creava la Cooperazione italiana,
gestita dal ministero degli Esteri (da allora la maggiore occupazione del
ministero), con an dotazione di duemila miliardi, rimasta poi immutata (oggi è un
miliardo). Si seppe subito che ne beneficiavano solo le economie “donatrici”, sia
degli aiuti bilaterali sia di quelli multilaterali, attraverso le numerose
agenzie dell’Onu, e la stessa Banca Mondiale, creata a questo scopo. Compresi i
loro cooperanti, giovani ambosessi a caccia di esotismi remunerativi, della borsa
e della personalità. Wainana si fa leggere perché sa condire golosamente il sarcasmo.
Solo l’ironia è efficace contro le anime buone degli “aiuti all’Africa”, come
dire ai selvaggi.
La scoperta dell’Africa,
diceva un insegnante alle medie, è stata fatta prima di Gesù Cristo (“hai fatto
la scoperta dell’Africa, la quale è stata fatta….”). Ma in che modo? Quella di
Wainana, lo scrittore kenyota-sudafricano morto cinque ani fa, è di nemmeno
cinquant’anni fa. Il racconto più lungo e più famoso della raccolta, “Scoprire
casa”, è letteralmente la scoperta del Kenya, dove Wainana è nato e cresciuto –
lo scopre dopo avere studiato e vissuto in Sudafrica. Premiato, ma è un racconto
semplice, di cose viste, fuori Nairobi, tra le varie tribù, con varie usanze, sorprendenti
anche per lui, specie fra le donne, anzi fra le lolite. E questo dà da pensare
– al lettore, non a Wainana, che la sua scoperta propone come uno schiaffo ai
non-africani che blaterano di Africa.
Il saggio fu scritto
in polemica con Kapuściński, e con Bono Vox. Fu pubblicato su “Granta”, ebbe
eco vasta –ancora oggi è il saggio più letto della rivista inglese – e gli
procurò un paio di cause. Ma, se così è, si conferma lo stato pietoso in cui giace
l’Africa, anche nelle tenzoni letterarie.
Dell’Africa reale
un solo accenno Wainana dà nell’antologia, indirettamente, nella postfazione di
Achal Prabala, lo scrittore e amico indiano che ha curato l’antologia (e ha
provveduto a sistemare i saggi per tema, con una breve presentazione per ogni
gruppo). Con “Scoprendo casa” si candidò al Cane Prize per la letteratura
africana. “Gli organizzatori lo rifiutarono, spiegando che il loro era un premio
serio e che quindi ammettevano soltanto scrittori seri pubblicati su giornali
seri”. Al che Wainana poté obiettare: “Ah sì? In Africa nell’ultimo anno è
stata pubblicata una sola antologia cartacea. Dove pensate di trovarli, i racconti?”
Con i soldi del premio, Wainana poi fondò la “rivista letteraria che avrebbe voluto
leggere”, che chiamò “Kwani”, embé? E subito poi ebbe fama internazionale in
ambito anglosassone col saggio del titolo, pubblicato anche questo su “Granta”.
Di sé Wainana testimonia
qui l’“erotomania culinaria”. Sa cucinare, ha riproposto decine di piatti africani,
pescati qua e là nelle tante tradizioni locali del continente, e ne ha fatto
pure la sua attività, per alcuni anni in Sud Africa, con un proprio ristorante
in società con amici. Molte annotazioni culinarie ricorrono nei racconti. Ma di
più ricorrono le storie di madre e di figlie. Più in generale la “diversità”
dell’Africa racconta attraverso ritratti e ritrattini, ance solo lampi, femminili.
Non c’è un problema di femminismo in Africa, di rivalsa – ma questo si sapeva
dalla vecchia antropologia, l’Africa è matrilineare. Con una piccola rivalsa. Al
tempo dell’imperialismo europeo c’era l’“odore dell’Africa”, se non
dell’africano, al quale gli africani ribattevano che l’uomo bianco “puzza di cadavere”.
Wainana non ne fa una discriminante, ma nota che “l’odore della ragazza bianca”
è “come ragnatela nelle narici”.
Procede così, per
frammenti, per lampi. Anche nei racconti più lunghi, elaborati. È così che è celebrato
in ambito anglosassone per aver e destabilizzato il “discorso sull’Africa”, i
modi di dire, anche i più partecipi. Sull’Africa senza fìgli africani. Delle anime
buone della cooperazione come di ogni altro viaggiatore, analista, scrittore.
Con molti racconti
nel racconto. Le ragazze Masai che si sposano a tredici anni per accumulare,
presto e molto, a spese del marito. Le dame tutsi del Ruanda che non devono
fare sforzi – in loro vece li fanno le serve hutu. La Grande Famiglia che si
ritrova in Uganda per le nozze di diamante dei nonni materni, un centinaio di persone
che non si conoscono – e la sorella amata della mamma che, vecchia, arriva da
New York incrollabile tra mille incidenti. Altri testi sono per qualche verso scontati,
meno sorprendenti. Haye-onWye in Galles, il paese delle mille librerie. La
circoncisione, tra i kikuyu e le altre tribù, semprer varia. La personale “scoperta”
delle tante tribù del Kenia, in aggiunta ai kikuyu della politica e degli
affari, dei kalengju, dei masai, dei turkana, dei kamba. Dolo di sfuggita si dice
della madre che è una tutsi – per dire che è, anche in età, una bella donna. Ma
si pone il vecchio quesito imperialista: “Come si crea una nazione partendo da
una quarantina di tribù”, di lingue, di usi?
Con rispetto per i
riti cattolici, che la mamma pratica, meno per l’islam – a un certo punto si dice
un amico corrotto da “tremila anni di frollatura mussulmana”. Con qualche
scurrilità. Rara, ma aiuta a capire l’enigma del postumo incompleto (rielaborato
lungamente) “Franza”, della pur timorata Ingeborg Bachmann: “donne tedesche arrapate”
ricorrono, anche “bionde scandinave”, alla caccia dell’uomo nero. E c’è chi ricorre
alla “DolceMamminaRicca in Germania” per promettere sfracelli a letto al
prossimo incontro, mentre chiede soldi per “mantenere saldo il totem”.
Una raccolta
rinfrescante. Di grande lettura, sempre per un qualche verso, anche per chi non
sa o non vuole sapere di Africa. Di cose viste e di divagazioni. La “Donna
Nandi” per cominciare che si ritrova sui muri in casa, la donna-divinità della tribù
Nandi di cui infine scopre il mistero: è una “Gioconda” africana, una copia-adattamento.
Il trapasso in cielo dopo morto, che è un discendere sulla terra, apre la raccolta
– e qui è meglio il paratesto: Wainana ci teneva ma no lo ritrovava, avendolo
confidato a un sito secondo lui poi scomparso, purification.com – che invece
esisteva, ma si chiamava Pure Fiction.
Con un glossario, e
alcune note bio-bibliografiche di orientamento. E con un’omissione. Chiunque
può riconoscersi nelle decine, centinaia di modi di operare, dire, pensare l’Africa,
anche in Africa, di cui Wainana fa la caricatura. Ma Wainana non dice - dieci
anni fa. non un’eternità - l’essenziale: lo stato comatoso dell’Africa a quaranta,
cinquanta, settant’anni dall’indipendenza. In Kenya, il suo paese, e in Sudafrica,
dove ha vissuto felice, è un po’ meno vero – visse a Nairobi e a Città del
Capo, che sono come tutte le città – ma anche lì tra prepotenze e corruzione. Questo
sito dava cinque anni fa una lista deprimente della politica in Africa, all’insegna
delle dittature di f atto, tutte più o meno corrotte:
http://www.antiit.com/2019/02/il-mondo-come-366.html
Pensare come avrebbe
potuto essere la Costa d’Avorio, o il Senegal, il Dahomey-Benin, il Camerun, l’Angola,
la Tanzania. O la Nigeria, che arrivava all’indipendenza col potenziale degli
Stati Uniti nell’Ottocento, perfino con le stesse spinte secessioniste:
popolazione, istruzione, territorio, e con la stessa “buona dose” di robber
barrons, di attività furfantesche, ma redditizie e accumulative, ed è
finita nella delinquenza minuta, dalla prostituzione alla moschea - mentre le
casse nazionali dopo ogni elezione finiscono in Svizzera. E poi è vero che
canto e ballo sono africani, non è un’offesa, sono belli da ascoltare e da
vedere, anche sui campi di calcio.
Binyavaga Wainana,
Come scrivere dell’Africa, 66thand2nd,
pp. 420 € 18
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