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Nostalgia del padre
In
cinque episodi, Francesca bambina e “Pinocchio” (la balena divoratrice e il
film), Francesca adolescente, contestatrice e perduta, l’esilio forzato a Parigi
col padre e il recupero, Francesca regista come il padre, da lui assistita, e la
fine di un padre infine amato che s’invola nel cielo di Venezia. Un corpo a
corpo di Francesca col padre, loro due soli, isolati dalla madre, dalla
famiglia, dal contesto (se non per alcune scene dei terribili anni Settanta, di
droghe mentali e materiali). Nella nostalgia - nostalgia del padre, chi lo avrebbe detto, del padre-padre, paterno.
Una
storia personale, dapprima idilliaca poi drammatica. Come un risarcimento, al
padre, e una liberazione. Tutta sulle espressioni di Francesca nelle sue due
età, la bambina Elena Mangiocavallo, e Romana Maggiora Vergano. E di Fabrizio
Gifuni, sempre misurato nel ruolo di padre accudente. Giocata con esperienza,
scena dopo scena – poche le sbavature al montaggio.
Una
curiosità, che disturba ma non molto, è Gifuni che rinvia inevitabile all’Aldo
Moro di Bellocchio, il produttore del film. Nelle sonorotià e nelle
figurazioni, la taglia inevitabile, ma anche i primi piani di sbeico, lo sguardo
ironico, la calma inflessibile, da pressione bassa, e da decenni di sgambetti
politici. Mentre Comencini, narratore faceto, in una famiglia di tutte donne,
cosmopolita e poliglotta, molto attivo nell’industria e nell’estetica del
cinema, s’immagina meno posato e più come-tutti. E sempre molto attivo, molto
fuori, socievole, “inventore” della commedia all’italiana, con una cinquantina
di film all’attivo e una decina di serie tv, im quarantì’anni di vita attiva.
Francesca
Comencini, Il tempo che ci vuole
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