giovedì 17 ottobre 2024

Povera Sicilia, e ritardata

Trentatré “storie di vita”, selezionate per la pubblicazione, su suggerimento di Italo Calvino, dal sociologo triestino trapiantato in Sicilia tra il 1952 e il 1960, che le aveva trascritte. “Alcuni racconti”, nelle parole dello stesso Dolci alla prima edizione nel 1963, “che ho raccolto dal 1952 al 1960 tra la povera gente di quella parte della Sicilia in cui operiamo”, fra Trapani e Palermo, a Trappeto e Partinico. In una “nuova edizione accresciuta”, annuncia l’editore (ma senza spiegare come), con un’introduzione del pedagogista Franco Lorenzoni, e una nota su Dolci, “il Gandhi italiano”, e la sua “avventura” in Sicilia, dello storico Giuseppe Barone.
Storie “in assenza di giudizio”, nota il prefatore Franco Lorenzoni, e “un esempio particolarmente riuscito di storia orale”. In realtà il giudizio è già nella scelta del soggetto, della speciale testimonianza, cioè di un punto di vista, e nella trascrizione – è il problema della storia orale, una pre-scelta. E i racconti sono di povertà e arretratezza.
“Un documento di un passato prossimo inverosimile” premette l’editore.  Un documento storico? Non ne ha l’impianto. L’intenzione è di “documentare” una situazione di degrado estremo. I racconti sono di personaggi e situazioni borderline. Anche dove la situazione è storicizzata: il feudo, la mezzadria, le leggi Gullo non applicate, sulla redistibuzione del reddito in mezzadria, i Carabinieri schierati dalla parte dei padroni - si tende a riabilitare Scelba come quello, ministro e presidente del consiglio, che fiaccò la deriva sovietica dell’Italia, ma fu anche quello della polizia che spara ai cafoni (lo farà fino al 1968, sembra strano che lo facesse in pieno centro-sinistra, che aveva debuttato nel 1963 con la proposta di disarmo della Polizia nelle manifestazioni, ma lo fece, con i morti di Avola - negli stessi vigneti su cui poi, finito il “feudo”, si è impiantato il Nero d’Avola di tanto sucesso). E l’autonarraziome, minuta, dettaglista, divagante, ripetitiva, per pagine  e pagine, di persone sempre dalla parte del giusto, per le violenze giudiziarie, domestiche, sanitarie,  padronali, ecetera, ma per qualche motivo semrpe estreme, tolgono il fiato – e la voglia.
Motivo principale dell’impressione di trovarsi in racconti in realtà monotematici, e di casi limite, è dato dallo stesso impianto delle narrazioni. Divaganti ma ripetitive –pochi racconti sono sintetici, chi parla tende a divagare e ripetersi. Oltre che dalla scelta dei casi più oltraggiosi, l’uno dietro l’altro, senza mai un intervallo. Si comincia col carcere, “Vincenzo”, di un abigeatario presumibilmente, che si racconta con storie da pìcaro ma di buona coscienza. interminabilmente. “Rosario” vive di verdure selvatiche, che raccatta dove può: sa trattarle, e ci guadagna, anche se non abbastanza per sopravvivere. Pii c’è chi vive applocandl mignatte, “La patata”. “Santo” è uno che, sapendo un po’ leggere, scopre dai manifesti che la legge Gullo dà ai mezzadri la parte maggiore del raccolto, e se ne fa una bandiera. “Gaspare” esemplifica le angherie cui si deve sotttoporre il povero bisognoso di cure. “Ciolino”, figlio di emigrati di ritorno, non riesce a quadrare la sua vita. “Nonna Nedda” argomenta se e quando è giusto litigare col marito, picchirlo ol farsene picchiare. C’è anche l’esproprio per fare la diga, “Zu Felice”. E pochi sono brevi – fulmineo esordisce il nettubino di Palermo: “Come bellezza è bellissima ma sudicia è”.
Non grandi avventure. C’è molto sindacalismo. E un principio di ambientalismo: il pescatore di frodo con le “bombe”, “Antonio”, ha la coscienza di distruggere più, molto di più, di quanto ne ricava. “L’unico ritratto non autobiografico è quello di Placido Rizzotto”, avverte il prefatore, “perché il segretario della Camera del Lavoro di Corleone fu ammazzato dalla mafia nel 1948”: lo racconta un amico, “L’amico di Placido” (che potrebbe essere lo stesso Dolci, perché no), e allora non ci sono geremiadi, ma un caso sindacale e politco.
Di altro stampo gli ultimi racconti. Salvatore Vilardo fa, sessant’anni fa, la sociologia dello stadio, del tifo come “coscienza” comune – di cui si comincerà a parlare molto più tardi, dopo la famosa Ialia-Germania 4-3, quando la gente passò la notte in piazza - più e meglio di “Santa Rosalia”, la grande festa per la santa di Palermo, che lascia tutto sporco, e c’è anche “una coscienza ippica elevagtissima”, e una ciclistica. Un indimenticabile “Cavalier Volpe”, infaticabile e riuscito creatore di cooperative, sin da 1919, già senatore a vita del Duce, di cui è sempre ammiratore, e ora protagonista del movimento cooperativo della Repbblica. L’incredibile “Onorevole Calò”, onorevole Dc, pedagogista principe prima e dopo la guerra, anche lui infaticabile e irresistibile creatore di cooperative, nonché gestore dei sussidi, che spiega come la politica è ridotta ai favori, e tutto, tutto è “arretrato”. L’“economia latifondistica” correttamente spiegando non come vincolo esclusivo coercitivo ma come mentalità – lo spiegava già sessanta, settant’anni fa, mentre tuttora sociologi e storici si attardano sul “latifondo” al Sud: la campagna siciliana “ha una base comune che si chiama arreratezza, con tipo di economia latifondistica, non come estensione del latifondo ma come indirizzo agricolo, monoculturale, povero, senza irrigazione dove pure ce n’è la possibilità, con poche conoscenze di concimazione ecetera”: Si finisce con una principessa, Sonia Alliata di Salaparuta –“nella campaga non vive non vive più nessuno dell’aristocrazia, solo io o la principessa Paternò” – sul buon tempo antico, in cui i contadini erano familiari.
La riproposta è però sorprendente in quanto fa riscoprire Dolci, oggi dimenticato. Un uomo che da solo riuscì a creare una sorta di movimento di liberazione  siciliano. Premio Lenin già nel 1956, un anno dopo la pubblicazione della sua prima testimonianza, “Banditi a Partinico”. Mobilitatore di molte energie – Goffredo Fofi gli si aggregò a 18 anni - e di una larga opinione europea. Testimone anche del rischio, da lui avviato, di fare della mafia il Sud, piuttosto che un’attività - e forse una organizzazione (ma gli assassinii sono per lo più tra malviventi - criminale. “Il 22 settembre 1965”, ricorda Barone, “nel corso di un’affollata conferenza stampa successiva a un’audizione della Commissione antimafia, Dolci denuncia per collusione con la criminalità organizzata il ministro del Commercio con l’Estero Bernardo Mattarella, il sottosegretario alla Sanità Calogero Volpe, il senatore Girolamo Messeri e numerosi notabili siciliani”. Mattarella e Volpe si querelarono e Dolci fu condannato. Messeri non risulta condannato e nemmeno indagato. Volpe fu deputato alla Costituente e per sette legislature, cioè fino al 1979. Di Mattarella la memoria è stata curata dalla famiglia, i figli Piersanti, presidente della Regione Sicilia, assassinato dalla mafia, e Sergio, e dai nipoti: a vent’anni con don Sturzo, segretario di sezione dei Popolari a Castellamare di Stabia, partecipe delle riunioni clandestine con De Gasperi a Roma a partire dal 1942, sottosegretario dei due governi del Cln presieduti da Bonomi, vice-segretario della neo-costituita Dc, con Dossetti e Piccioni, deputato della Costituente, ministro di molti governi a partire dal 1953.  
Danilo Dolci, Racconti siciliani, Sellerio, pp. 435 €15

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