Povera Sicilia, e ritardata
Trentatré
“storie di vita”, selezionate per la pubblicazione, su suggerimento di Italo
Calvino, dal sociologo triestino trapiantato in Sicilia tra il 1952 e il 1960,
che le aveva trascritte. “Alcuni racconti”, nelle parole dello stesso Dolci
alla prima edizione nel 1963, “che ho raccolto dal 1952 al 1960 tra la povera
gente di quella parte della Sicilia in cui operiamo”, fra Trapani e Palermo, a
Trappeto e Partinico. In una “nuova edizione accresciuta”, annuncia l’editore
(ma senza spiegare come), con un’introduzione del pedagogista Franco Lorenzoni,
e una nota su Dolci, “il Gandhi italiano”, e la sua “avventura” in Sicilia,
dello storico Giuseppe Barone.
Storie
“in assenza di giudizio”, nota il prefatore Franco Lorenzoni, e “un esempio
particolarmente riuscito di storia orale”. In realtà il giudizio è già nella
scelta del soggetto, della speciale testimonianza, cioè di un punto di vista, e
nella trascrizione – è il problema della storia orale, una pre-scelta. E i racconti
sono di povertà e arretratezza.
“Un
documento di un passato prossimo inverosimile” premette l’editore. Un documento storico? Non ne ha l’impianto.
L’intenzione è di “documentare” una situazione di degrado estremo. I racconti
sono di personaggi e situazioni borderline.
Anche dove la situazione è storicizzata: il feudo, la mezzadria, le leggi Gullo
non applicate, sulla redistibuzione del reddito in mezzadria, i Carabinieri schierati
dalla parte dei padroni - si tende a riabilitare Scelba come quello, ministro e
presidente del consiglio, che fiaccò la deriva sovietica dell’Italia, ma fu
anche quello della polizia che spara ai cafoni (lo farà fino al 1968, sembra
strano che lo facesse in pieno centro-sinistra, che aveva debuttato nel 1963
con la proposta di disarmo della Polizia nelle manifestazioni, ma lo fece, con i
morti di Avola - negli stessi vigneti su cui poi, finito il “feudo”, si è impiantato
il Nero d’Avola di tanto sucesso). E l’autonarraziome, minuta, dettaglista, divagante,
ripetitiva, per pagine e pagine, di
persone sempre dalla parte del giusto, per le violenze giudiziarie, domestiche,
sanitarie, padronali, ecetera, ma per
qualche motivo semrpe estreme, tolgono il fiato – e la voglia.
Motivo
principale dell’impressione di trovarsi in racconti in realtà monotematici, e
di casi limite, è dato dallo stesso impianto delle narrazioni. Divaganti ma
ripetitive –pochi racconti sono sintetici, chi parla tende a divagare e
ripetersi. Oltre che dalla scelta dei casi più oltraggiosi, l’uno dietro l’altro,
senza mai un intervallo. Si comincia col carcere, “Vincenzo”, di un abigeatario
presumibilmente, che si racconta con storie da pìcaro ma di buona coscienza. interminabilmente. “Rosario” vive di
verdure selvatiche, che raccatta dove può: sa trattarle, e ci guadagna, anche
se non abbastanza per sopravvivere. Pii c’è chi vive applocandl mignatte, “La
patata”. “Santo” è uno che, sapendo un po’ leggere, scopre dai manifesti che la
legge Gullo dà ai mezzadri la parte maggiore del raccolto, e se ne fa una bandiera.
“Gaspare” esemplifica le angherie cui si deve sotttoporre il povero bisognoso
di cure. “Ciolino”, figlio di emigrati di ritorno, non riesce a quadrare la sua
vita. “Nonna Nedda” argomenta se e quando è giusto litigare col marito,
picchirlo ol farsene picchiare. C’è anche l’esproprio per fare la diga, “Zu
Felice”. E pochi sono brevi – fulmineo esordisce il nettubino di Palermo: “Come
bellezza è bellissima ma sudicia è”.
Non
grandi avventure. C’è molto sindacalismo. E un principio di ambientalismo: il
pescatore di frodo con le “bombe”, “Antonio”, ha la coscienza di distruggere
più, molto di più, di quanto ne ricava. “L’unico ritratto non autobiografico è
quello di Placido Rizzotto”, avverte il prefatore, “perché il segretario della
Camera del Lavoro di Corleone fu ammazzato dalla mafia nel 1948”: lo racconta
un amico, “L’amico di Placido” (che potrebbe essere lo stesso Dolci, perché
no), e allora non ci sono geremiadi, ma un caso sindacale e politco.
Di
altro stampo gli ultimi racconti. Salvatore Vilardo fa, sessant’anni fa, la
sociologia dello stadio, del tifo come “coscienza” comune – di cui si comincerà
a parlare molto più tardi, dopo la famosa Ialia-Germania 4-3, quando la gente
passò la notte in piazza - più e meglio di “Santa Rosalia”, la grande festa per
la santa di Palermo, che lascia tutto sporco, e c’è anche “una coscienza ippica
elevagtissima”, e una ciclistica. Un indimenticabile “Cavalier Volpe”, infaticabile
e riuscito creatore di cooperative, sin da 1919, già senatore a vita del Duce,
di cui è sempre ammiratore, e ora protagonista del movimento cooperativo della
Repbblica. L’incredibile “Onorevole Calò”, onorevole Dc, pedagogista principe
prima e dopo la guerra, anche lui infaticabile e irresistibile creatore di cooperative,
nonché gestore dei sussidi, che spiega come la politica è ridotta ai favori, e
tutto, tutto è “arretrato”. L’“economia latifondistica” correttamente spiegando
non come vincolo esclusivo coercitivo ma come mentalità – lo spiegava già sessanta,
settant’anni fa, mentre tuttora sociologi e storici si attardano sul “latifondo”
al Sud: la campagna siciliana “ha una base comune che si chiama arreratezza, con
tipo di economia latifondistica, non come estensione del latifondo ma come
indirizzo agricolo, monoculturale, povero, senza irrigazione dove pure ce n’è la
possibilità, con poche conoscenze di concimazione ecetera”: Si finisce con una
principessa, Sonia Alliata di Salaparuta –“nella campaga non vive non vive più
nessuno dell’aristocrazia, solo io o la principessa Paternò” – sul buon tempo antico,
in cui i contadini erano familiari.
La
riproposta è però sorprendente in quanto fa riscoprire Dolci, oggi dimenticato.
Un uomo che da solo riuscì a creare una sorta di movimento di liberazione siciliano. Premio Lenin già nel 1956, un anno
dopo la pubblicazione della sua prima testimonianza, “Banditi a Partinico”. Mobilitatore
di molte energie – Goffredo Fofi gli si aggregò a 18 anni - e di una larga
opinione europea. Testimone anche del rischio, da lui avviato, di fare della
mafia il Sud, piuttosto che un’attività - e forse una organizzazione (ma gli
assassinii sono per lo più tra malviventi - criminale. “Il 22 settembre 1965”,
ricorda Barone, “nel corso di un’affollata conferenza stampa successiva a un’audizione
della Commissione antimafia, Dolci denuncia per collusione con la criminalità
organizzata il ministro del Commercio con l’Estero Bernardo Mattarella, il
sottosegretario alla Sanità Calogero Volpe, il senatore Girolamo Messeri e numerosi
notabili siciliani”. Mattarella e Volpe si querelarono e Dolci fu condannato.
Messeri non risulta condannato e nemmeno indagato. Volpe fu deputato alla
Costituente e per sette legislature, cioè fino al 1979. Di Mattarella la
memoria è stata curata dalla famiglia, i figli Piersanti, presidente della
Regione Sicilia, assassinato dalla mafia, e Sergio, e dai nipoti: a vent’anni
con don Sturzo, segretario di sezione dei Popolari a Castellamare di Stabia,
partecipe delle riunioni clandestine con De Gasperi a Roma a partire dal 1942,
sottosegretario dei due governi del Cln presieduti da Bonomi, vice-segretario della
neo-costituita Dc, con Dossetti e Piccioni, deputato della Costituente,
ministro di molti governi a partire dal 1953.
Danilo
Dolci, Racconti siciliani, Sellerio,
pp. 435 €15
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