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Il romanzo del Vietnam prima del Vietnam
Il romanzo del
Vietnam prima del Vietnam. Reporter e romanziere di tutte le guerre e
guerriglie, Graham Greene non si è fatto mancare il Vietnam, quello del 1952-1955,
quando la guerra era d’Indocina, della Francia che tentava di recuperare la
colonia (ogni notte scoppiano bombe a Saigon, ma anche di giorno). Di cui però
sapeva anche gli sviluppi futuri. Al punto da essere per questo dichiarato
“persona non grata” negli Stati Uniti, niente più visto d’ingresso - criticato
perfino, per leso americanismo, dal “New Yorker”, rivista progressista se mai
ce ne sono state. G.Greene non sapeva di Kennedy naturalmente, ma sapeva
dell’ansia “umanitaria” americana di imporsi nel resto del mondo. Cominciando
col “fare le scarpe” alla Francia in Indocina, nel nome della decolonizzazione
e della democrazia. In contemporanea con la guerra di Corea.
Un racconto tanto
semplice, nello svolgimento, quanto intricato, perfino carognesco, nel
ghiommero dei personaggi. Che poi sono semplici anche loro, sono solo tre:
Pyle, l’americano del titolo, “volontario della pace”, Fowler, il giornalista
inglese blasé, fra oppio e alcol, e la ragazza Phuong vietnamita, nome
vero di una vecchia amica di Greene a Saigon. Con l’autore impersonato in Fowler,
il narratore.
Molte bombe scoppiano,
e i mortai fanno “aggiustamento”, nel capitolo centrale, al Nord, sopre le
teste per tutto il girono. Ma poche scene di guerre. Anzi, solo questa, tra
Hanoi e Saigon, di tipo malapartiano, dell’orrido semplice, del grottesco – il
grottesco delle guerre. Il nemico è onnipresente e invisibile. I giornalisti
sono cinici – gli americani e gli inglesi. Gli Stati Uniti vogliono la sconfitta
della Francia.
È il racconto di
un “inviato speciale”, che molto dice del cinismo del mestiere. A partire dal
modo di vivere, con una ragazza vietnamita, “inviato speciale” – quale del
resto era – insabbiato, a metà tra oppio e amanti. Con l’elogio della donna
vietnamita.che sa anche tenere la casa – rammendare i calzini, e preparare e alimentare
l’oppio la sera. In questo caso, ma come in molti altri Greene, il racocnto di
una spia, tra le spie – Graham Greene fino alla fine si dilettò di fare
l’informatore dei servizi segreti inglesi, ai quali lo aveva introdotto la
sorella maggiore, che vi lavorava, in gioventù, quando aveva bisogno di guadagnarsi
di che vivere.
Molto autocritico,
l’“americano tranquillo” è di fatto un punching ball, sul quale Greene esercita
autocritiche e autocommiserazioni. Compresa l’autoflagellazione di uno
scrittore vecchio a cinquant’anni, traditore della moglie – qui ancora con una
sola donna, a Capri, che poi lo ha abbandonato, mentre altre due successive
“vite” seguiranno, a Antibes e a Montreux. Con l’orgolgio del cronista anti-solone,
anti-commentatore, rivendicato a ogni passo. Il capitolo più drammatico, al centro
del racconto, conclude con un: “Che strano, tiriamo fuori appena due righe
d’agenzia per una notte del genere”.
Il colonialismo –
storia e sistema – in due pagine, nessun particolare omesso. E una critica radicale
della guerra. Ma – per questo? - sentenzioso. Prolisso a volte. Sull’inutilità della
guerra, di tutte le guerre. Sui rapporti umani. Sui rapporti familiari. La
storia di un amore, disperato. Con tanto di Dante, Paolo e Francesca – c’è
Dante anche nel volto liberale, di “virute e conoscenza”.
E una nota singolare
nella vasta produzione di G. Greene. Là dove, nell’estremo tentativo di legare
a sé la ragazza Phuong, scrive alla moglie per chiedere di abiurare per una volta
al principio, pure sacrosanto, dell’indissolubilità del matrimonio, che lei da
buona cattolica professa. Questa è stata una costante della vita vera dello
scrittore, che ebbe tre lunghe convivenze, matrimoniali, all’estero, mentre
restava sposato in Inghilterra.
Un cameo
è – in una delle due scene di guerra della narrazione (l’altra è il bombardamento
del caccia, che punta l’obiettivo in picchiata, per non consentire all’antiaerea
di puntarlo, e si risolleva avvitandosi un secondo prima dell’impatto al suolo)
- la dimenticata Phat Diem al Nord, “la città più vivace dell’intero apese”: la
capitale cattolica del Vietnam, un insieme di chiese, cattedrali, monasteri, costruito
sugli acquitrini, come e con le stesse tecniche di Venezia.
Zadie Smith, che
presenta questa riedizone, dovendo dare a G. Greene un appellativo, è un
Tolstoj?, è uno Stendhal?, lo riduce a “più grande gionalista mai esistito”. Ma
è ben di più. Oltre che romanziere, è scienziato politico raffinatissimo del
secondo Novecento. In questo “romanzo” come in quelli dell’Africa e
dell’America Latina – sapeva di che parlava. E narratore di vasta – aperta, non
conchiusa, non definita – umanità. E scrittore onesto, pur essendo in vita
donnaiolo frivolo, buon bevitore dall’occhio lucido, pro-comunista larvato, al
modo degli snob inglesi, cattolico non osservante ma quanto “religioso”.
Golosissima la
postfazione di Domenico Scarpa. Un (piccolo-grande) monumento a G. Greene. Pieno
di tagli sorprtendenti e utili al lettore. Sull’autore, e su questa opera –
“tra letteratura, religione, politica e autobiografia, i cunicoli che percorrono
il sottosuolo dell’‘Americano tranquillo’”.
Graham Greene, Un
americano tranquillo, Sellerio, pp.360 € 16
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