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L’infelicità della felicità
Un saggio delle
lettere che la poetessa, morta suicida nel 1938, a 26 anni, un anno dopo avere
cominciato a lavorare, supplente di lettere in un istituto tecnico, scriveva
con continuità ai familiari. E con appplicazione. Soprattutto alla nonna a
Pavia. Dopo ogni sia pur minimo spostamento: a Pasturo, in montagna, nella casa
di vacanza di famiglia, e poi a Campiglio, oppure a Napoli e Sorrento per
Pasqua, inseme col padre, al mare ad Abbazia, Portofino e altrove, e poi, dopo i
vent’anni, in Inghilterra per l’inglese, accompagnata dai genitori, in
Germania, per il tedesco (nella Berlino imperiale di Hitler, qui però del tutto
assente: mai un accenno di politica), e a Breil, Vatournanche e Champoluc per
praticare l’alpinismo.
Un piccolo documento
di valore biografico. Testimonianza di una vita serena. Perfino nell’ultima lettera
(qui ricostruita, l’originale il padre lo distrusse, per evitare che la madre
se ne crucciasse). Una vita piena, di vacanze, viaggi, affetti, zie, domestici,
di una giovane piena di meraviglia per la vita e di interessi.
Una nota al testo
sarebbe stata opportuna. Anche sul titolo, che non trova nessun riscontro nella
scelta. Le lettere sono anche indirizzate a familiari donne, e tutte allegre e
fiduciose. Il fatto che abbiano tutte conservato queste lettere, di una figlia e nipote ragazzina, è il più commovente,
L’unico uomo,
oltre il babbo, nominato è l’amatissimo professore di latino e greco al ginnasio,
Antonio Maria Cervi, che le fa una corte discreta, benché lei sia ancora quindicenne,
facendosi trovare a Napoli o Sorrento, per guidarla a Pompei e altrove, per poi
lasciarla, alla prima liceo, avendo chiesto il trasferimento a Roma (la storia
con “Antonello”, poi “Nello”, non finisce qui, e forse ci sarà addirittura un
figlio mai nato nel mezzo).
Antonia Pozzi,
È terribile essere una donna, Garzanti, pp. 95 € 5,90
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