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Ma Camus critica Marx, e le rivoluzioni politiche
“Io mi rivolto,
dunque noi siamo”. La capacità – la possibilità di ribellarsi è la sola breccia nell’assurdo
che avvolge l’uomo, l’esistenza umana. Questo è assioma costante della
riflessione di Camus. “Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no”, è l’incipit
di questo saggio: “Ma se si rifiuta, non rinuncia: è anche un uomo che dice sì,
fin da suo primo movimento. Uno schiavo, che ha ricevuto degli ordini tutta la
sua vita, giudica all’improvviso inaccettabile un nuovo comando”. Semplice.
Il contenuto di questo
“no” è da vedere. E qui si viene a sapere molto di ciò che si vuole salvifico e
non lo è - non nel senso di Camus, come uscita dall’assurdo dell’esistenza,
della nascita. L’incipit vero di questo lungo saggio, che è in realtà un lungo pamphlet,
le prime righe della prefazione, è devastante: “Ci sono crimini di passione e
crimini di logica. Il Codice penale li distingue, abbastanza comodamente, per la
premeditazione. Noi siamo al tempo della premeditazione e del crimine perfetto.
I nostri criminali non sono più quei ragazzi disarmati che invocavano la scusa
dell’amore. Sono adulti, al contrario, e il loro alibi è irrefutabile: è la
filosofia che può servire a tutto, anche a cambiare gli assassini in giudici”.
Il regalo di Landini,
reduce dall’appello alla “rivolta sociale”, alla capo del governo Meloni, bersaglio
dell’appello, è un controsenso. L’“uomo in rivolta” di Camus non è il barricadiero,
stile contestazione. Sono quattrocento pagine, piene, anche troppo, martellanti,
inflessibili, che mettono in discussione le rivoluzioni storiche.
Il capitolo “Le
rivoluzioni storiche” prende quasi la metà della trattazione: i regicidi, il terrore,
i deicidi, Hegel e Nietzsche compresi, il terrorismo individuale (Nečaev,
Bakunin, nichilismo), e quello organizzato, lo “scigalevismo” di Dostoevskij (“I
demoni”), il terrore di Stato (Napoleone, Stalin, Mussolini o “la santa religione
dell’anarchia”, Hitler), Marx (“Il terrore di Stato e il Terrore razionale”, “Il
regno dei fini”, e, sul sovietismo, “La totalità e il processo”). Il tema, del
capitolo e del libro, è come l’uomo, nel nome della rivoluzione, che pure è la
sua essenza, accetta e anzi propugna il crimine. Come la rivoluzione ha avuto sempre
esito nel Novecento in Stati di polizia e totalitari (“concentrazionari”)? Come
l’orgoglio umano ha potuto erigersi a violenza?
L’interrogativo è
insistito. Ben raccontato, tanto più che se le sue derivazioni sono state
tantissime, quelle di cui Camus tiene conto, ma alla fine deprimente. Come dire:
meglio non essere che rivoltarsi? Meglio non rivoltarsi, non in politica.
Le parti migliori,
leggibili oggi con qualche sorpresa, e anche nel senso che Landini forse
intendeva facendone omaggio provocatorio a Meloni, sono la parte iniziale, “La
rivolta metafisica”, e quelle finali, sotto l’insegna “Rivolta e arte”.
La pubblicazione del lungo saggio a fine
1951 fu una sorpresa nella sinistra politica in Europa, all’Ovest e all’Est,
dalla Jugoslavia di Tito alla Polonia e alla stessa Russia. Aprì una contesa
furibonda di buona parte dell’intellighentsia europea contro Camus. Specialmente
aspra fu la polemica in Francia. Aperta da Sartre, allora in fase bolscevica,
anzi staliniana - col supporto di de Beauvoir, mediatrice ma non convinta. L’amicizia
tra i due si ruppe senza nemmeno una grande discussion. La discussione ci fu ma
non risolutiva - e nemmeno di grande livello, col senno di poi, ma anche con
quello dell’epoca: Sartre in politica si può dire che non ne azzecca una.
Albert Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, pp. 384 € 16
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