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Quello che il partito Democratico non ha anticipato
Quello che Orwell non ha anticipato, nel saggio sul Newspeak (la nuova
parlata o neolingua, “parlanuovo”, “nuovalingua”), che chiude “1984”, il racconto
di una la dittatura che si impone attraverso il linguaggio (e il silenziamento),
è naturalmente il linguaggio incontrollato – quello dei social. Controllato
da padroni occulti oppure no, vagante, spontaneo, superficiale. Che “forma” la realtà
nei modi più eversivi: avventurosi, nella migliore delle ipotesi (non
eterodiretti) e aggressivi. Il che è
vero e non è vero.
Non è vero, Garber stessa spiega, nel senso che Orwell dà del Newspeak.
Il saggio che chiude “1984” è un’evoluzione dell’argomento da lui già affrontato
nel più famoso saggio “Politica e inglese” (“Politics and the English Language”):
una guida al linguaggio onesto, che dice quello che intende, e intende quello
che dice. “Newspeak” argomenta “la più elementare intuizione: «Se il pensiero corrompe
il linguaggio, il linguaggio anche può corrompere il pensiero»”.
Se non che poi la stessa Garber, collaboratrice di “The Atkantic”, una
rivista fieramente anti-Trump, si diffonde lungamente sulle accuse a Trump di nazismo,
fascismo, doppiogiochismo (doppelgänger) e altre perversioni politiche.
E chiede: “Perché le mettiamo sul ridere?” Spiegando che le parole, anche quando
sono battute, sciocchezzuole, slogan pubblicitari, “sono retorica”, hanno un
senso e mirano a (comunque producono) un effetto. E qui bizzarramente il
saggio, letto dopo il voto su Trump, assume un significato opposto a quello
dell’autrice e della rivista: il newspeak di Orwell ha funzionato
eccome, autoingannatore. È, è stato, quello di “The Atlantic” e del “pensiero” Democratico,
il modo dei Democratici di presentarsi la realtà degli elettori – “il linguaggio
può anche corrompere il pensiero”: il linguaggio (democratico) attorno a Trump
ha corrotto il pensiero (democratico), che si è immaginato un paese che non c’è.
Megan Garber, What Orwell didn’t
Ancipate, “The Atlantic”
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