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sabato 14 dicembre 2024

Il mondo com'è (481)

astolfo


Émilie du Châtelet
– A lungo celebrata come donna di mondo e letterata, compagna per quindici anni di Voltaire, è ora ricordata come una delle prime scienziate francesi, matematica e fisica. La sua traduzione dei “Principia Mathematica” di Newton , che fa testo in francese ancora oggi, l’aveva segnalata già al suo tempo. Sostenuta nella ricerca anche da Voltaire, nella lunga convivenza che i due ebbero a Cirey, era stata introdotta alla fisica, a Newton e a Bernoulli, da Samuel König. Oltre che di Newton, fu anche l’introduttrice in Francia di Leibniz, di cui provò sperimentalmente la teoria che l’energia cinetica (la cosiddetta “forza viva”) è proporzionale alla massa e al quadrato della velocità.
La relazione con König fu forse l’unica sua non sessuale. Madame du Châtelet è infatti anche l’antesignana della libertà sessuale della donna – è stata a lungo più nota per questo. Visse poco, 43 anni, dal 1706 al 1749, e sempre in comunione col marito, di cui porterà sempre il cognome, sposato a 19 anni, e col quale ebbe quattro figli: una a vent’anni, uno a ventuno, uno a ventotto, morto dopo la nascita, e una che ne provocherà la morte, il 4 settembre 1749 – morirà sei giorni dopo.
Era cresciuta in una famiglia molto colta e molto aperta. Erano di casa Fontenelle e il poeta Rousseau, Jean-Baptiste. Ebbe precettori per le sue esigenze e i suoi interessi, come li avevano avuti i fratelli maschi, maggiori di lei. Studiosa del latino, del greco, del tedesco, e dell’inglese. Delle matematiche. E della musica. Preentata a corte a 16 anni, ne godrà i privilegi e ne apprezzerà le passioni – danza, canto, teatro, conversazion, moda, gioielli. A Parigi è l’autrice di un “Discorso sulla felicità”, e l’animatrice dei salotti. Ha molti amanti: il marchese di Guébriant, il maresciallo de Richelieu, e Maupertuis. Prima di Voltaire, con il quale convivrà per quindici anni, dal 1733 – lei di 27 anni, lui di 39. Nel castello di lei – del marito d lei – a Cirey, nel ducato di Lorena, allora quasi indipendente dal regno di Francia (Voltaire temeva persecuzioni politiche).
Una convivenza fertile per lei. Studia Leibniz. Si concerta con gli scienziati tutti dell’epoca: Maupertuis, König, Bernoulli, Euler, Réaumur, Buffon. È in questa convivenza che avvia la traduzione di Newton. Nella vicina Lunéville, la “Versailles” del duca di Lorena, l’ex re di Polonia Stanislaa Leszczynski, suocero di Ligi XV, incontra l’ufficiale e poeta Jean-François de Saint-Lambert, col quale si concede un’ultima avventura. Ne avrà la figlia, la cui nascita la porterà a morte – al parto e ai suoi ultimi giorni è assistita dal marito e da Voltaire.
Con Voltaire ha anche lavorato a lungo a una lettura critica delle Scritture. Ma è sul versante scientifico che la convivenza fu per lei fertile. E senza remore. A Parigi essendo proibito alle donne l’accesso ai caffè, luoghi di ritrovo e discussione tra scienziati - matematici, astronomi, fisici - un aneddoto la vuole presentarsi vestita da uomo a uno di questi ritrovi. Ma era riconosciuta donna di scienza già in vita, poiché risulta membro dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna – l’unico che all’epoca accettasse le donne – iscritta nel registro l’1 aprile 1746 (un’iscrizione di cui menava vanto nella corrispondenza).
(continua)

Grandma Moses – “Nonna Moses”, l’artista folk (o naif) più importante d’America, più apprezzata, quotata e amata, morta a 101 anni nel 1961, scoprì la pittura a 75 anni, più o meno. Dieci anni dopo era “un fenomeno di marketing in pieno slancio”: Hallmark, il gruppo specializzato in carte e oggetti per le Feste di fine anno e le vacanze, vendette 16 milioni di cartoline di Natale di Grandma Moses nel 1947. “Ho sempre voluto dipingere”, aveva detto quattro anni prima, “ma non ho avuto tempo finché non ho fatto 76 anni”.
Nata nel 1860 Anna Mary Robertson Moses, in una famiglia di contadini – benché vantassero ascendenze tra i pellegrini del Mayflower, i primi coloni inglesi - nelle campagne dello stato di New York, a 12 anni era andata a servizio. A 15 aveva sposato un bracciante, col quale era emigrata in Virginia, fittavoli nella Shenandoah Valley. Ebbe dieci figli, di cui cinque morti nei primi anni. Nel 1905 era ritornata con la sua propria famiglia all’origine, a Earl Bridge, al confine del New York col Vermont, dove rilevarono una latteria. Morto il marito nel 1927, quando lei aveva 67 anni, la futura Grandma Moses provò a cavarsela coi ricami. Arrivò alla pittura, a suo dire, nel 1935. E già tre anni dopo un collezionista di New York, Louis Caldor, le comprava dei quadretti – in mostra in un emporio locale. Nel 1939 teneva una prima esposizione al Museum of Modern Arts. L’anno successivo entrava nella scuderia del mercante d’arte newyorchese Otto Kallir. Che ne farà nel dopoguerra l’altra faccia dell’America, l’antagonista di Jackson Pollock, della pittura astratta. Entrambi campioni dell’americanità: Pollock dinamico, inventivo, aggressivo, “Grandma” Moses modesta, tradizionale, solida. Pittrice instancabile dello stesso soggetto, in termini di taglio, prospetto, colori, in forme di campi, boschi, colline, con edifici modesti e figurine “fiamminghe” in primo piano.    

Horace Greeley – Hjalmar Schacht, il banchiere centrale tedesco degli anni 1920 e 1930, famoso per avere salvato il marco dalla superinflazione nei primi 1920, e nei primi 1930 per avere eliminato la disoccupazione di massa, spiega nelle memorie il suo strano nome, Hjalmar Horace Greeley Schacht. Lo spiega con la didascalia di un articolo che la rivista “Time” gli dedicò nel secondo dopoguerra, quando, denazificato, intraprese l’attività di consulente allo sviluppo nel Terzo Mondo. Sotto la sua foto, tra il generale Neguib, allora a capo dell’Egitto, e della sua propria moglie, di Schacht, la didascalia diceva: “Go East, old man”. E si spiegava così: Horace Greeley era un politico americano, famoso per avere incitato i giovani della East Coast, che bighellonavano nei grandi porti di New York e Boston a intraprendere l’avventura del West, nell’America dei grandi spazi, che offriva opportunità per tutti: “Go West!”. Il padre di Schacht, che aveva passato sette anni negli Stati Uniti in cerca di fortuna, come contabile e poi in affari, era un ammiratore di Greeley, “un Democratico tutto d’un pezzo” – in realtà Repubblicano, seppure della fazione Liberal Republican. Fondatore anche del quotidiano di New York “Tribune”, poi “New York Herald Tribune” – nel dopoguerra sarà ripreso per mezzo secolo, tra il1967 e il 2013, in Europa, a Parigi.
 
Legge dei pieni poteri – Ermächtigungsgesetz nell’originale tedesco (Enabling Law nel repertorio angloamericano), è la legge del 23 marzo 1933 con cui il Parlamento tedesco, il Reichstag, autorizzava il governo a varare modifiche alla Costituzione. Cioè a destituire lo stesso Reichstag, e ad istituire lo Stato totalitario.
Una legge non articolata. Brevissima, di una dozzina di righe, in cinque articoli. Che nessun giudice peraltro, nemmeno alla Corte Costituzionale, dirà illegale o incostituzionale. Anzi, uno dei giudici costituzionali, Erich Schultze, ebbe a obiettare alla successiva pretesa di Hitler a una “rivoluzione nazista”, spiegando che il termine “rivoluzione” andava inteso in questo caso non come un rovesciamento dell’ordine costituzionale ma piuttosto da riferire al radicalismo politico di Hitler.  
Il voto veniva dopo l’incendio del Reichstag, provocato da Hitler ma imputato ai comunisti. E dopo le elezioni del 5 marzo, che Hitler aveva vinto ma senza arrivare alla maggioranza. E si svolse sotto varie forme di pressione e intimidazione delle SA. In assenza dei deputati comunisti (81), e di 26 dei 120 deputati socialdemocratici, ristretti nei
lager subito il voto con un decreto che li incolpava dell’incendio del Reichstag. Ma il Reichstag avrebbe potuto dire no alla legge: Hitler non aveva la maggioranza, era al governo ancora con i partiti del Centro, e comunque la legge costituzionale dei pieni poteri richiedeva la maggioranza qualificata di due terzi del voto.
Malgrado l’illegalità già ampiamene imposta sulle istituzioni, Hitler aveva bisogno di una legge del Reichstag per sopprimere di fatto il Reichstag. Per superare il prevedibile rifiuto altrimenti del presidente Hindenburg, attestato su una linea di resistenza formalistica. Singolare il parallelismo anche in questo caso, del passaggio ai pieni poteri, con l’analogo passaggio italiano, di Mussolini il 24 dicembre 1925, un anno dopo l’assunzione di responsabilità dell’assassinio d Matteotti, e il ritiro dell’opposizione sull’Aventino.
A Berlino l’opposizione non si ritirò, ma fu divisa in tre: 109 assenti (107 confinati, uno del Centro e uno del partito Popolare), 94 contro (i socialdemocratici), e 444 a favore, di cui solo 288 del
partito nazionalsocialista. I voti decisivi vennero dai partiti di orientamento cattolico. E dal partito Nazionale Popolare, che nella repubblica di Weimar, prima di Hitler, aveva stimolato gli orientamenti antisemiti e anticattolici. Decisero i 72 sì del Centro (Zentrum – uno era assente), più i 19 dell’affiliato Partito Popolare Bavarese. E i 52 del partito Nazionale Popolare.
A favore dei pieni poteri a Hitler anche i quattro protestanti del Servizio Popolare Sociale Cristiano, i cinque del partito Statale (l’ex partito Democratico, di centro-sinistra), i due del partito dei Coltivatori, uno del partito Pollare (uno assente), e il voto del rappresentante del Landbund, degli agrari.
Hitler aveva negoziato, e concluso il 22 marzo, alla viglia del voto, un accordo col presidente del partito del Centro (Zentrum), Ludwig Kaas, un prete, cui prometteva la libera attività del partito, la protezione delle libertà civili e religiose, e delle scuole religiose, e il posto assicurato per i dipendenti pubblici affiliati del partito. In parlamento Hitler presentò la legge nei termini di questa presunta intesa. Kaas intervenne per assicurare il sostegno del suo aprtito, “sospendendo le preoccupazioni” – accanto a lui l’ex capo del partito, ed ex cancelliere nel 1931, Heinrich Brüning, invece tacque, malgrado la solennità del voto.
Il giorno dopo il voto Kaas si recò a Roma, “per discutere”, disse, “la possibilità di un accordo comprensivo tra chiesa e stato”. Quello che sarà firmato il 20 luglio, il concordato – firmato a Roma dal cardinale Pacelli, il futuro Pio XII, segretario di Stato, già nunzio in Germania fino al 1929, e fero oppositore dei socialisti, oltre che dei comunisti (così Brüning testimonierà nelle memorie). Il concordato fu firmato alla presenza di Kaas, del vice-cancelliere ancora in carica von Papen, del partito di Kaas, del ministro dell’Interno Rudolf Buttmann, e dei cardinali Pizzarro e Ottaviano, in aggiunta a Pacelli.
Il cardinale Pacelli, nunzio in Germania fino al 1929, era soprattutto preoccupato dalle sinistre, dai socialisti oltre che dai comunisti. Era stato quindi nel 1931, quando già era cardinale a Roma e segretario di Stato, avversario della Grande Coazione che si tentò fra Popolari e Socialisti per governare la Germania durante la recessione seguita al crac del 1929, e prevenire lo scivolamento del voto verso le estreme. Secondo i ricordi di Brüning, in un incontro del 931, quando lo stesso Brüning era cancelliere, fece fortissime pressioni per la dissoluzione della Grande Coalizione, facendone una precondizione per la stipula del concordato.


astolfo@antiit.eu

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