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La guerra di Erdogan ai curdi (di Siria)
Nel 2018, alla
dissoluzione dell’impero ottomano, i curdi costituivano l’unico possibile Stato:
una popolazione, una lingua, un territorio. Per evitarlo, saggezza coloniale, furono
divisi in tre: una parte alla nuova Turchia, una parte alla Francia (Siria) e
una parte all’Inghilterra (Iraq). Da allora combattono, e niente, non c’è via d’uscita
per loro. Sono un popolo, sono mussulmani ma sono “moderni”, democratici e
rispettosi dei diritti.
“Siamo democratici, inclusivi, femministi e mussulmani”,
può dire oggi a Nicastro sul “Corriere della sera” l’avvocato Amina Omar, già
presidente del Consiglio Democratico Siriano, dei curdi di Siria. Che si
autogovernano da una quindicina d’anni, nel caos del paese, di Assad e dopo.
Il Consiglio governa il
Rojava. Ridenominazione della regione Nord della Siria, lungo la frontiera con l’Iraq e la Turchia. Ma contro di esso è in atto una guerra non tanto nascosta, solo “dimenticata”, di Erdogan. Contro
l’idea di uno Stato curdo, che fatalmente attrarrebbe il Curdistan turco. E
contro un islamismo femminista.
Erdogan ha armato una
Syrian National Army, alleata di quello che resta dell’Is in Siria - dello Stato
islamico, che controlla la Siria centrale - contro il Rojava, col quale confina
per tutta la sua lunghezza. Lo stesso Erdogan che la Ue finanzia lautamente per
“gestire” l’esodo dei siriani: curdi stanchi delle guerre, e perseguitati dall’Is.
Quindi sue vittime - da avviare peraltro sulla rotta balcanica, invece di accudirle,
o su quella della Magna Grecia, verso Locri e Crotone.
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