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Le armi portano ala guerra
Le “armi” del pacifismo
sono spuntate. Anche oggi che siamo, seppure a distanza (ma ne paghiamo i costi),
in mezzo alle guerre, in Palestina, in Siria, in Ucraina. Spuntate lo erano, al
fondo, anche al tempo di Cassola, di questa perorazione, nel 1980. Che però, riproposta
oggi, ha un’altra risonanza.
Allora eravamo –
l’Europa era – come al di fuori o al di sotto delle guerre, poiché l’unica che
si prospettava, seppure remotamente, era quella nucleare, tra i due grandi
imperi, Usa e Urss. Oggi quella minaccia non c’è più, e bizzarramente siamo più
esposti alle guerre. Alle conseguenze, per ora, delle guerre. E a guerre di tipologie
che si pensavano passate e quasi remote, religiose e tribali. È qui che la perorazione
di Cassola comincia a mordere: stiamo parlando di noi, dei nostri vicini – non di
deep state senza volto e comitati centrali.
Il disarmo è un’utopia
– bisognerebbe prima finirla con gli Stati. E non c’è anno che la spesa per
armamenti non si accresca. Ma capire che le armi fanno male, questo non sembra
impossibile.
C’è anche una ragione
di lungo per un appello come questo di Cassola – che fosse per questo motivo è
caduto nel vuoto: l’Italia è pacifista. L’opinione, la politica, le stesse forze
armate, e la costituzione, sono pacifiste. La leva è volontaria, e i corpi militari
sono addestrati a missioni civili, e di pacificazione. Ma – è il problema del pacifismo
– questo non risolve: l’Italia non può, non potrebbe, escludersi da una guerra di
quelle cosiddette di civiltà. Per l’Europa o per l’Occidente, per due concetti,
anche un po’ malandati.
C’è sempre un motivo
per farsi guerra. A meno di una guerra contro tutte le guerre. Ma dell’utopia c’è
bisogno – ne ha bisogno la stessa Realpolitik. C’è bisogno del domani.
Carlo Cassola, Contro
le armi, Rogas, pp. 168 € 15,70
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